lunedì 22 ottobre 2007

QUEL TRENO PER YUMA

Remake e sequel. Sequel e remake…. Da Hollywood non sembrano arrivare grandi segnali di creatività e di novità, vista l’affannosa corsa ai rifacimenti e ai seguiti. Così può andar bene al botteghino, ma meno bene su altri versanti. Prendete “Quel treno per Yuma”. L’originale è del 1957, per la regia di Delmer Daves e la coppia di interpreti principali è formata da Glenn Ford e Van Heflin. Un gran western, signori, dominato da avvolgenti tempi di attesa e con lezione morale indimenticabile. Nel 2007 James Mangold, regista che ci aveva entusiasmato con il bellissimo “Walk the Line” – Quando l’amore brucia l’anima”, firma il remake, sempre prendendo spunto dal racconto di Elmore Leonard (qui adattato dagli sceneggiatori Michael Brandt e Derek Haas, già autori dello script di “2 Fast 2 Furious”) e mettendo al centro della vicenda i due divi Russell Crowe e Christian Bale, motivo certo di richiamo per gli spettatori.
Buoni incassi al botteghino (più o meno 50 milioni di dollari, con un primo posto al box office nel primo fine settimana) per via di una certa fame di film western, ma risultato finale che non ritorna adeguatamente ai capisaldi di un genere che per qualcuno “è il cinema stesso”.
Nell’epopea cinematografica western classica di ben altro carattere erano i tempi, i personaggi, le situazioni: qui ci troviamo davanti ad un compito eseguito ma non privo di incongruenze (lo zoppo Dan Evans che ad un certo punto corre come una gazzella…) e abbastanza lontano come “anima” dalle più genuine atmosfere dei film ambientati nel “lontano ovest” che riempiono tuttora gli annali della storia del cinema (decisamente meglio, negli ultimi tempi, è andata al buon Kevin Costner con “Terra di confine”, crepuscolare ed in buona sintonia con i canoni del genere). Colpa di tempi troppo dilatati che non riescono a definire la giusta tensione, di sprazzi spettacolari non sempre equilibrati e di una coppia di attori che domina troppo il film, restando “sospesi” rispetto al progetto generale. La storia dell’agricoltore Dan Evans (Christian Bale) che, spinto da condizioni economiche disperate, scorta il criminale Ben Wade (Russell Crowe) verso la città di Contention dove verrà messo sul treno per Yuma e per il suo destino, ritorna con dovizia di mezzi, schermo panoramico e l’utilizzo degli avvolgenti scenari naturali del New Mexico, senza raggiungere la dinamica tensione dell’originale
Nel cast del nuovo “Yuma” ci sono anche Ben Foster (il socio di Wade, cattivo, cattivissimo), Gretchen Mol (Alice, la moglie di Evans) e Peter Fonda, nei panni di un anziano agente Pinkerton.
Paolo Pagliarani

RATATOUILLE

Un topo in cucina? E per giunta in un esclusivo ristorante parigino? Sacre bleu, non si può, a meno che non siamo in compagnia dei geniacci della Pixar, casa che al momento non ha eguali per la qualità delle “pietanze animate” e il topo in questione sia un tenero animaletto tutto pixel ed olfatto straordinario. “Ratatouille”, titolo che riprende il nome della più celebre ricetta provenzale, piatto con un ruolo importante nel film, è la nuova produzione animata Pixar (con distribuzione Disney che sappiamo quanto ci tenga ai topi…), scritta e diretta da Brad Bird, già regista de “Gli incredibili”. Il topo in questione si chiama Remy e alla spazzatura preferisce il “gourmet”. Ispirato dal defunto cuoco Gusteau, Remy si trova separato dalla sua colonia ed arriva proprio nel ristorante del grande chef, negli ultimi anni un po’ in declino e con due stelle in meno, anche per colpa del severo critico culinario Anton Ego. Nella cucina capitanata dall’avido chef Skinner, più propenso a creare linee di cibi surgelati che ad entusiasmare i palati altrui, c’è anche il timido sguattero Linguini che, per via dell’abilità culinaria di Remy, viene scambiato per un bravissimo cuoco. I suoi piatti vanno a ruba e così Linguini si allea di nascosto con Remy per creare succulenti manicaretti. Ma la storia si complica con l’arrivo della colonia di ratti a cui appartiene il cuoco-chef, con i sospetti di Skinner, con un segreto nel passato del giovane nuovo cuoco, con la chiamata di un ispettore sanitario e, quel che peggio, con il ritorno di Anton Ego nel ristorante, curioso di assaggiare le specialità decantate.
“Ratatouille” è davvero gustoso, simpatico e realizzato in modo impeccabile. Il topolino protagonista fa impazzire piccoli e grandi spettatori (già c’è chi invita a non acquistare topi domestici da tenere in casa) e la storia, che ha anche degli angolino romantici, si muove tra pentole, verdure, spezie, sapori e, sembra quasi di sentirli, profumi. Praticamente uno dei migliori film culinari degli ultimi anni, nonostante il paradosso di un ratto in un luogo da mantenersi pulito ed immacolato come la cucina di un grande ristorante. Ma come dice lo stesso Gusteau, “tutti possono cucinare”, l’importante è avere fantasia, creatività e conoscere alla perfezione sapori ed odori, facendo anche attenzione a spostare lo sguardo in avanti per trovare nuove aspirazioni.
Condito dalla briosa colonna sonora di Michael Giacchino che aveva già firmato lo score” de “Gli incredibili”, “Ratatouille” si avvale nella versione originale delle voci di Patton Oswalt, Ian Holm, Brian Dennehy, Jeaneane Garofano e Peter O’ Toole.
Prima del film il consueto cortometraggio: questa volta è “Stu”, con un alieno pasticcione alle prese con i comandi dell’astronave…
Paolo Pagliarani

venerdì 19 ottobre 2007

ANGEL

Nelle sale cinematografiche va di moda il “film-romanzo”, o meglio opere in cui la creazione letteraria si intreccia con la vita. Succede in “Espiazione” di Joe Wright, capita in “Becoming Jane” di Julian Jarrold ed ora è giunto anche “Angel”, scritto e diretto da François Ozon (“Sotto la sabbia”, “Swimming Pool”, “Otto donne ed un mistero”, “5x2”) che ha adattato il romanzo di Elizabeth Taylor (no, non la protagonista di “Cleopatra”, ma la scrittrice inglese originaria del Berkshire e morta nel 1975…).
La pimpante Angel Deverell (Romola Garai, vista di recente in “Scoop”, “As you like it” ed “Espiazione”) ha un sogno ricorrente in testa: diventare una scrittrice di successo. La sua determinazione è tale che riesce a superare le costrizioni della sua vita modesta e ad affermarsi in campo letterario, grazie anche all’intuito dell’editore Théo (Sam Neill: negli ultimi anni più attivo sul piccolo schermo che sul versante cinematografico, molti lo ricordano anche nel “Dottor Zivago” televisivo del 2002, diretto da Giacomo Campiotti), sposato non certo felicemente con l’acida Hermione (Charlotte Rampling, attrice che frequenta spesso i film del regista parigino). Angel riesce ad ottenere tutto ciò che desidera: la fama, l’amore per il giovane Esmé (Michael Fassbender, coinvolto negli ultimi tempi nel cast di “300”), la villa agognata ai tempi della scuola, denominata “Paradise” e pure l’adorante assistenza della sorella di Esmé, Nora (Lucy Russell: era la protagonista de “La damigella e il duca” di Eric Rohmer)).
Tutto questo capita nel ventesimo secolo e la guerra è destinata a frantumare la vertigine del successo che ha completamente avvolto la protagonista.
“Angel”, uno dei film meglio riusciti di Ozon, è costruito nella prima parte su una cadenzata briosità da commedia, amplificata dalla vitale presenza dell’attrice principale su cui i panni della Deverell calzano perfettamente. Poi il film ruota sempre di più verso il corposo melodramma, inevitabile visti i tempi in cui è ambientato, con Angel impossibilitata a ritrovare il suo “paradiso” e sempre più avvolta dal dolore e dalla sconfitta.
Tra curate atmosfere romantiche, seducenti ispirazioni letterarie, indovinate soluzioni estetiche e “locations” azzeccate (riprese effettuate tra Inghilterra e Belgio), “Angel” è certamente opera emotivamente coinvolgente e decisamente meno “cerebrale” rispetto ad altre opere dell’autore.
Paolo Pagiarani

mercoledì 17 ottobre 2007

BECOMING JANE

La vita è un romanzo. Almeno nelle intenzioni del regista Julian Jarrold (l’autore dello spiritoso “Kinky Boots” e tra l’altro anche di un “Grandi Speranze” televisivo e prossimo a riportare al cinema “Brideshead Revisited” dal romanzo di Evelyn Waugh) che ha provato a cimentarsi, assieme agli sceneggiatori Kevin Hood e Sarah Williams, con la figura della scrittrice Jane Austen non attraverso le sue celebri pagine letterarie ma dal punto di vista della sua vita privata, nella sua giovane età, quando la ragazza soffriva per le sue personali pene d’amore (come è noto la scrittrice non si è mai sposata) e iniziava a partorire il suo romanzo più famoso “Orgoglio e Pregiudizio”.
Così seguiamo le altalene sentimentali della Austen, infatuata di Tom Lefroy, giovane irlandese prossimo all’avvocatura ed amante della bella vita, ma spinta dalla famiglia, in situazione economica non floridissima, a sposare il nipote dell’arcigna e ricca Lady Gresham. Un po’ defilate rispetto alle amorose (e deludenti) vicende della scrittrice, le vite della sorella Cassandra, promessa sposa ad un giovane pastore e del fratello (nella vita reale i fratelli della Austen erano ben sei) Henry, oggetto del desiderio della bella vedova De Feullide.
Il risultato complessivo di “Becoming Jane” è quello di una corretta biografia un po’ romanzata, ma che non riesce a spiccare del tutto il volo e rimane “a terra” pur restando uno spettacolo dominato da garbo e pulizia formale.
Nei panni di Jane Austen la giovane Anne Hathaway, attrice di grido degli ultimi tempi, già in “Il diavolo veste Prada”, graziosa quanto basta ma le cui origini newyorkesi le impediscono di essere “inglese” fino in fondo, mentre per il ruolo di Tom Lefroy è stato chiamato il giovane James Mc Avoy, recentemente “intrecciato” ad un altro film dall’anima letteraria ovvero “Espiazione” di Joe Wright.
Ma i veri “assi nella manica” del cast sono attori del calibro di James Cromwell (il reverendo Austen, padre di Jane), Julie Walters (la signora Austen), Ian Richardson (il giudice Langlois) e la monumentale Maggie Smith, la cui Lady Gresham è esattamente ciò che ci aspetteremmo da un simile personaggio.
“Locations” in Irlanda ed Inghilterra e cast artistico che vede la presenza di abituali collaboratori di Jarrold come il direttore della fotografia Eigil Bryld, del compositore Adrian Johnston e della montatrice Emma E. Hickox (il padre è il regista Douglas mentre mamma, Anne V Coates, fa lo stesso lavoro della figlia ed ha vinto nientemeno che un Oscar per “Lawrence d’Arabia”), dal nome decisamente “austeniano”.
Paolo Pagliarani

STARDUST

Le stelle sono tante, milioni di milioni… Ma se sul grande schermo ne cade una come minimo ha le fattezze di una bella fanciulla. Esattamente ciò che succede nella fiaba “Stardust”, regia di Matthew Vaughn, già regista di “The Pusher” con Daniel Craig, amico e produttore di Guy Ritchie (nonché testimone di nozze al matrimonio di quest’ultimo con Madonna), marito di Claudia Schiffer ed ora al lavoro sul film dedicato al mitico Thor. La sceneggiatura, dello stesso Vaughn assieme a Jane Goldman è ricavata dal romanzo di Neil Gaiman e Charles Vess, ed è la storia di una stella caduta, un giovanotto che cerca di recuperarla per farne dono alla ragazza più bella del villaggio di Wall (così chiamato per via di un lungo muro che separa l’abitato da un luogo misterioso), una strega perfida che cerca il cuore della stella per ricavarne la pozione per l’eterna giovinezza, una nave pirata con un bizzarro comandante dai modi apparentemente burberi a caccia di fulmini e sette fratelli in lotta tra loro per la conquista del trono di un magico regno.
Ingredienti sfiziosi ed il prodotto finale risulta davvero convincente con un apprezzabile mix di avventura, romanticismo, magia, ironia e qualche simpatica “trasgressione”, adatta però ad un pubblico familiare (Robert De Niro in abiti femminili…).
Originariamente destinato a Terry Gilliam che ha reclinato l’invito per “riposarsi” dalle favole dopo “I fratelli Grimm”, “Stardust” non ha però trionfato al botteghino americano e non si capisce il perché, vista la gradevolezza dell’insieme e la presenza di un ricco cast che oltre al già citato De Niro (capitan Shakespeare) vede impegnati la bellissima Michelle Pfeiffer nei panni della strega Lamia, con il fascino che si “sgretola” (un monito all’eccessivo ricorrere dei lifting?) a poco a poco, il giovane Charlie Cox nei panni del protagonista Tristan, Claire Danes in quelli della stella Yvaine, Sienna Miller per la “desiderata” Victoria, la giovine per cui Tristan va alla ricerca dell’astro caduto dal cielo e poi Mark Strong nei panni del cattivo Septimus, Ricky Gervais in quelli di un astuto mercante ed apparizioni speciali di Peter O’ Toole (il vecchio re) e Rupert Everett, il fratello chiamato Secundus, che si diverte ad interpretare il ruolo di un fantasma con il volto schiacciato.
Il ritmo incalza man mano che si procede nella storia, le suggestioni ci sono tutte (bella la nave pirata metà veliero e metà mongolfiera), la Pfeiffer ammicca seducente e si diverte a fare la cattiva (del resto aveva già fatto la “strega di Eastwick”) e la famiglia si può felicemente riunire in una sala cinematografica.
Dimenticavo, ci sono anche delle “stelle” ritornate nel firmamento del pop, ovvero i “Take That” a cui spetta il compito della canzone finale sui titoli di coda…
Paolo Pagliarani

INVASION

Una storia inossidabile… Resiste alle ingiurie del tempo la trama del romanzo di Jack Finney “The Body Snatcher”, adattato per ben quattro volte sul grande schermo. La prima fu in piena era maccartista, alla regia c’era il grande Don Siegel e “L’ invasione degli ultracorpi”, quella dei grossi bacelli, divenne un classico di fantascienza ed un contenitore di paure assortite. Poi ci furono l’urlo agghiacciante degli alieni di “Terrore dallo spazio profondo” di Philip Kaufmann (1978) e i filamenti “bavosi” della versione “militarizzata” di Abel Ferrara del 1993 (“Ultracorpi – l’invasione continua”. E oggi? Ecco “Invasion”, film dalla lavorazione più travagliata di un attacco extraterrestre, passato dalle mani del tedesco Olivier Hirschbiegel a James McTeigue che ha completato alcune sequenze, non accreditato. Così il film, già pronto nel 2006, nonostante la coppia di due star nei ruoli principali (Nicole Kidman e Daniel Craig) è arrivato solo ora nelle sale e negli Stati Uniti ha clamorosamente “bucato” al botteghino.
La storia è del resto nota (il pubblico si è forse stancato degli “ultracorpi”?): gli alieni “rubano” i corpi (in questa versione attraverso i fluidi corporei), impossessandosi delle fattezze fisiche e spersonalizzando gli umani. La mancanza di emozioni è l’elemento di riconoscibilità della minaccia spaziale e la psichiatra Carol Bennell si accorge dei vistosi cambiamenti della psiche, sia attraverso alcuni clienti che con l’ex marito (Jeremy Northam), il primo ad aver toccato la strana sostanza piovuta dal cielo attraverso i relitti di uno Shuttle saltato per aria (come dire, attenzione a ciò che inviamo nel cosmo!).
La dottoressa, con l’aiuto del medico Ben Driscoll (se conoscete bene il primo film, nomi e cognomi di alcuni personaggi vi suoneranno familiari), con cui ha un rapporto non solo professionale, cerca di capire cosa sta dietro al misterioso virus che ha messo in ginocchio la popolazione degli Stati Uniti e cerca anche di salvare il figlioletto dalla minaccia spaziale, scoprendo che il suo amato pargolo è pure la chiave per risolvere la situazione…
Ritmo pressante e inquietudini presenti: il remake è di discreta fattura ma non si riesce a digerire la morale finale secondo questa versione, dove sembra quasi da preferire un mondo disumanizzato ma senza guerre e violenze, piuttosto che la normalità con tutti i suoi problemi e le sue brave angosce quotidiane. Un mondo senza affetti meglio di uno dove batte forte il cuore dell’emozione? Nell’originale di Don Siegel forte e decisa era invece la reazione dell’individuo normale (il medico protagonista) nei confronti della perdita di personalità, in un mondo sempre più “meccanico” e incapace di ascoltare.
Oltre all’affascinante e un po’ gelida coppia di interpreti principali, in “Invasion” ci sono Jeremy Northam, il giovane Jackson Bond, Jeffrey Wright e, citazione per cinefili, Veronica Cartwright, già nel cast dell’invasione del 1978.

venerdì 12 ottobre 2007

Mr. Brooks

Kevin Costner, William Hurt e Demi Moore. Qualche anno fa, se messi insieme nello stesso film, potevano passare come “cast stellare”. Oggi invece sembra più una rimpatriata tra divi anni ’80 sempre in cerca di affermazioni in carriere contraddistinte da alti e bassi. Giudicate voi: Kevin Costner ha “ballato coi lupi”, William Hurt ha vinto un Oscar per “Il bacio della donna ragno” e Demi Moore ha avuto i suoi fasti come sex-symbol e come romantica ed appassionata mogliettina (vedi “Ghost”). Tappe importanti e fondamentali a cui però corrispondono anche tonfi imbarazzanti di carriera: qualche esempio? “The Guardian” per Costner, “Lost in space” per Hurt e per la Moore un lungo elenco con “Soldato Jane” e “Half Light” in testa… Capita a tutti qualche passo falso, direte, però questa volta il danno è compiuto da tutti e tre, nessuno escluso…
I divi si ritrovano infatti nel film “Mr. Brooks” diretto da Bruce A. Evans (sceneggiatore a cui si devono il bellissimo “Stand by me”, “Starman” e il piratesco “Corsari”), scritto dallo stesso assieme all’abituale collaboratore di sceneggiatura Raynold Gideon. Il curriculum sostanzioso dell’autore non coincide però con la qualità di questo brutto thriller, costruito sulla figura del signor Earl Brooks (Costner), proprietario di uno scatolificio, sposato e con una figlia adolescente in età di college e con più di un problema, e con il vizio irrefrenabile del delitto perfetto. Un serial killer infallibile, spinto al crimine dal suo alter ego Marshall (Hurt), personaggio che vive nella mente dell’uomo e si materializza solo davanti a lui. Brooks è bravo, dannatamente bravo e ha voglia a cercare indizi la detective Atwood (Moore), già impegnata peraltro a seguire le tracce di un altro pluriomicida evaso e a risolvere le sue spinose questioni personali di divorzio.
Quindi si moltiplicano i killer e pure gli alter ego, perché Brooks viene “beccato” durante una delle sue efferate “missioni” e ricattato da un fotografo, il signor Smith (Dane Cook), non intenzionato a denunciare l’uomo perché desideroso di ammirarlo in azione, seguendolo come un fedele assistente.
“Mr. Brooks” è un affannato accumulo di delitti e incubi, di rimorsi e preghiere, di contraddizioni e lacerazioni, di dubbi e sospetti, di indagini e di rischi, per due ore piuttosto sfiancanti e decisamente tendenti al ridicolo, nel tentativo assai tedioso di costruire una vicenda intricata sul confine che vive tra realtà e follia, quest’ultima in forma assai lucida vista l’imperturbabile “nonchalance” del protagonista nel vivere tranquillamente la sua esistenza quotidiana, senza lasciar trapelare nulla del suo sanguinario “passatempo”. Quanti “killer” normali abbiamo visto al cinema? Questo “Mr. Brooks” non rende certo nuovo interesse al tema e la criminosa “normalità” del personaggio principale è sviluppata in modo alquanto scolastico, con goffi tentativi di sorprese che non rialzano certo il livello dell’attenzione nei confronti della visione.
Paolo Pagliarani

mercoledì 10 ottobre 2007

IL BUIO NELL'ANIMA

New York sta scomparendo: lo sa bene la giornalista Erica Bain, interpretata da Jodie Foster, che raccoglie da anni gli umori, i suoni e le sensazioni della città sul suo fido registratore e li “trasporta” nella sua seguitissima rubrica radiofonica. Erica è la protagonista di “Il buio nell’anima”, il nuovo film diretto da Neil Jordan, con sceneggiatura di Roderick Taylor, Bruce A. Taylor e Cynthia Mort, storia ad alto tasso drammatico in cui la donna, vicina alle nozze con un giovane dottore (interpretato da Naveen Andrews), vede frantumare tutta la sua esistenza per colpa di un gruppo di brutali teppisti che pestano a sangue la coppia durante un’aggressione per futili motivi. Al risveglio dal coma Erica scopre con orrore che il suo amato David non c’è più e nel suo cuore si insinua un sentimento di vendetta che la porta ad armarsi di pistola e a diventare una giustiziera con rimorsi che emergono ma che non le impediscono di freddare con lucidità tutti i violenti che le capitano a tiro. La sua strada è destinata ad intrecciare quella dei suoi aggressori, ma c’è un detective (Terrence Howard) che inizia a sospettare di Erica, anche se il poliziotto nutre degli affetti per la giornalista, incontrata durante le indagini relative alla scia di crimini che sconvolge la città.
Il nuovo film di Jordan (“The Brave One” in originale), nonostante i sensi di colpa della protagonista, divisa nel cuore e nella mente, con una parte che chiede lo “stop” e l’altra in cerca di personale giustizia e nonostante tutto il suo carico di frustranti ansie metropolitane, dove la città non è più un luogo sicuro, ma un vivaio di “mostri” normali ma pronti ad esplodere in ogni momento, si delinea attraverso discutibili scelte narrative e stilistiche (brutta la scena in cui Erica viene preparata per l’operazione, alternata ai ricordi d’amore con il suo fidanzato…) e con contenuti non certo condivisibili (ma siamo ritornati al “Giustiziere della Notte”?), compreso il dubbioso finale. Si assiste così ad un’opera più “su commissione” con Jordan che quasi sparisce nella produzione, fagocitato probabilmente dalla figura della Foster, comunque brava nel suo doloroso ruolo, che del film è anche produttrice (assieme a Joel Silver) e che sembra tenere maggiormente in mano le redini del progetto. Dal regista irlandese, che ha firmato, ricordiamolo, opere come “Mona Lisa” e La moglie del soldato”, siamo abituati a progetti più personali e stimolanti e questo sembra essere più un prodotto “alimentare”, una di quelle trasferte hollywoodiane che il più delle volte non hanno certo giovato ai registi europei.
Nel cast compaiono anche Mary Steenburgen e Nicky Katt, le musiche sono di Dario Marianelli (un po’ il musicista del momento, suo anche lo “score” di “Espiazione”) e la fotografia di Philippe Rousselot, mentre per il montaggio Jordan è riuscito a mantenere il suo abituale collaboratore Tony Lawson.
Paolo Pagliarani

martedì 9 ottobre 2007

Hairspray


Largo alle taglie… larghe. “Hairspray” appartiene alla categoria “film che diventano musical e che ritornano ad essere film”, un po’ come è accaduto a “The Producers”. L’originale “Hairspray” (ribattezzato in Italia “Grasso è bello”) è del 1988, ha nel cast Divine, Deborah Harry e Sonny Bono (e anche Jerry Stiller, allora nel ruolo del padre di Tracy e ritornato nell’ “Hairspray” 2007 come Mr. Pinky) e fa parte della filmografia di John Waters (che compare nel ruolo di Flasher nella nuova versione). Ma non era un musical, anche se la colonna sonora con i suoi standard anni ’50 e ‘60 aveva la sua importanza e nel film si agitava forte la voglia di esserlo.
A riproporlo in teatro non ci è voluta poi tanta esitazione (è apparso nel 2002) e la versione “on stage”, dopo aver calpestato il palcoscenico, rivive al cinema grazie a Adam Shankman che del film è abile regista e coreografo, con la sceneggiatura riveduta da Leslie Dixon.
Si vivacizza così ulteriormente, con musiche stile “sixties” tutte da ascoltare e coreografie da seguire con massima attenzione, la storia di Tracy Turnblad (l’esordiente e simpaticissima Nikki Blonsky), cicciottella dalla mentalità aperta che vive nella Baltimora “divisa” nel 1962, era Kennedy, segue lo stile “capelli cotonati” (da cui la lacca del titolo), non si perde una puntata del televisivo Corny Collins Show, di cui è fan sfegatata assieme all’amica Penny (Amanda Bynes), è “cotta” del bellissimo compagno di scuola Link (Zac Efron, l’idolo del momento per le teen-agers, proveniente da “High School Musical”) e crede nell’integrazione. I tempi stanno cambiando ed anche la televisione, pure se ancora in bianco e nero (ma la vita, si sa è a “colori”): Tracy riesce ad entrare nel programma e fa di tutto perché anche i neri siano uguali agli altri, sconvolgendo l’ordine definito, compresi i genitori Wilbur (Christopher Walken) e Edna (John Travolta con chili di lattex e trucco per una travolgente interpretazione “en travesti”) che però appoggiano la figlia anche per controbattere l’altezzosa Velma Von Tussle (Michelle Pfeiffer) e la figlia Amber (Brittany Snow), convinte di essere le “numero uno” in bellezza e fascino. Problematiche razziste e familiari e tematiche come l’accettazione di se e degli altri e la frenesia del successo ben si amalgamano nel contesto generale, sorretto da un’energia e un’allegria contagiosa dall’inizio alla fine grazie al dinamico “score” e all’impegno globale del cast. Nessun attore sbaglia una virgola (ci sono anche James Marsden, Queen Latifah e Elijah Kelly) e il musical, forte dei 117 milioni di dollari raccolti negli USA, si merita l’applauso pieno, alla faccia del già citato “High School Musical”, prodottino televisivo ma che deve ancora fare tanta strada (anche se abbiamo già il numero due, la versione “in concert” ed una prossima versione cinematografica!) per raggiungere il livello dei veri film musicali come questo…

giovedì 27 settembre 2007

SCRIVILO SUI MURI


La “Moccia generation” è ormai accontentata oltre misura con la profusione di film “giovanili” usciti nelle sale negli ultimi due anni, compresi recuperi non certo fondamentali (vedi il primo film di Riccardo Scamarcio, rinnegato persino dall’attore). L’ultimo arrivato in ordine di tempo è “Scrivilo sui muri”, sceneggiatura e regia di Giancarlo Scarchilli (suoi “Mi fai un favore” con Ornella Muti e “I fobici” con Sabrina Ferilli), cast composto da Cristiana Capotondi (successo raccolto con “Notte prima degli esami”), Primo Reggiani (è passato dalle parti del tremendo “Melissa P.), Ludovico Fremono (è stato in “casa Cesaroni”) e Daniele De Angelis (faccia più o meno costante in questa tipologia di film dato che nel suo curriculum si ritrovano partecipazioni a “Ma che ci faccio qui?”, “Last Minute Marocco” e “Cardiofitness”), più gli adulti Claudio Bigagli, Anna Galiena e Yvonne Sciò, tutti compresi in due o tre pose ciascuno e partecipazioni sparse di Luis Molteni, Rodolfo Laganà e la cantante Dolcenera, che non canta e fa Benny, l’amica del cuore della protagonista, Sole.
Sole è una studentessa universitaria con il caratterino tipico della sua età: all’ennesima discussione familiare con la madre sempre assente, decide di spiccare il salto nel vuoto, ma la “visione” di Pierpaolo, un giovane writer, sul tetto la ferma. Sole incontra così i Civil Disobedience, entra a far parte delle loro azioni, diventa l’oggetto del desiderio di Pierpaolo ma si innamora dell’altro writer del gruppo, ovvero Alex, nonostante abbia già un fidanzato, uno spocchioso futuro avvocato, tutto vestiti eleganti e serate “alla moda”. Come risolverà Sole le questioni del suo cuore? Per i writer comunque c’è una grossa sfida: “taggare” un treno elettorale per diventare il gruppo numero uno…
Film inconsistente, con patetiche velleità di indagine sociologica sul fenomeno dei “graffittari” (il che ha fatto saltare le coronarie ad un politico, prima ancora che questi vedesse il film…) che non arriva da nessuna parte. Non riesce infatti ad essere in nessun modo determinato sul piano dell’inchiesta di costume e da un punto di vista romantico è banale e melenso, con quel carattere più da produzione televisiva che cinematografica, mancante di personalità e di brio. Il pubblico destinato al prodotto se ne deve essere accorto, visto che i risultati in sala non sono eccelsi, con un quarto posto in classifica ma con una bassa media per sala.
L’”overdose” di film sentimentali per giovani è arrivata al capolinea? Forse si, forse no: certo tra dieci, venti anni probabilmente nessuno riciclerà queste “operine” per rievocare i tempi (“Scrivilo sui muri” sembra addirittura già “vecchio”…) e si soffermerà piuttosto su Vasco Rossi (ovviamente presente in colonna sonora, dove compare anche Elisa, con la sua “Vita Spericolata”), che, piaccia o non piaccia, è sicuramente un fenomeno per più generazioni.

mercoledì 19 settembre 2007

I SIMPSON – IL FILM


Si ride già nei primi secondi, al risuonare della classica fanfara della “20th Century Fox”: praticamente un record! Poi un assaggio delle avventure spaziali di Grattachecca e Fichetto, o meglio un film a loro dedicato, a cui sta assistendo la famiglia gialla più famosa del mondo in una sala cinematografica. E noi ci godiamo Homer e compagnia su grande schermo, dove sono approdati dopo quasi vent’anni di militanza televisiva (sono nati nel 1989), con un lungometraggio tutto per loro diretto dall’esperto David Silverman, produttore per 64 episodi della serie e regista per 23.
Le creature di Matt Groening, (ideati, pare, in soli 15 minuti in una sala di attesa) nel loro orgoglioso 2D, con sberleffi alla Disney e prese in giro a destra e manca della vita quotidiana e dei personaggi famosi (tra le celebrità, che fanno a gara per farsi “caricatuzzare” dai disegnatori della serie, nel film si notano i Green Day, protagonisti di uno spassoso concerto musicale, Tom Hanks e Arnold Schwarzenegger che qui è diventato Presidente degli Stati Uniti), sono in fondo una famiglia come le altre, con difetti e pregi, ma con una forza ed una marcia in più dovuta alla loro stravaganza e alla diversità dei caratteri che permette di superare tutte le crisi.
Così nella storia creata appositamente per il cinematografo, i Simpson devono fronteggiare la terribile situazione di una Springfield isolata dal mondo per via dell’altissimo tasso di inquinamento del lago locale (indovinate di chi è la colpa?). Costretti a fuggire in Alaska, i gialli Simpson, dopo aver risolto una profonda crisi interna, riescono a far ritornare tutto alla normalità, sempre che consideriate Springfield una città normale…
Homer vuole rifugiarsi in Alaska ed ha trovato un nuovo amico, un simpatico porcello (rimanete anche per i titoli finali: la canzone “Spider Porc” da sola vale già il prezzo del biglietto!), Bart si sente trascurato da papà e si rifugia negli affetti del vicino Ned Flanders (ma è anche protagonista di una corsa in skatebooard completamente nudo che vi farà venire i lucciconi agli occhi dalle risate), Lisa si innamora di un ragazzo irlandese (che non è, come ci tiene a sottolineare, il figlio di Bono Vox!), Margie ha i suoi problemi casalinghi da risolvere, il nonno ha le visioni e Maggie pronuncia le sue prime parole, finalmente ascoltate anche dai genitori.
Un divertimento ed uno spasso, per tutte le età, tranne i bimbi più piccoli, visto che i Simpson hanno un loro target piuttosto adulto, per la valanga di citazioni, riferimenti sociali e politici e qualche momento che ha fatto venire i sorci verdi a più di un esagerato puritano. Ma non sono molto più “pericolose” certe famiglie televisive all’ordine del giorno sui nostri canali, veri e propri ricettacoli di banalità e di vuoto assoluto?

LA RAGAZZA DEL LAGO


Batte forte il cuore all’inizio di questo “La ragazza del lago”, “noir” provinciale ambientato in una silenziosa località friulana, esordio registico di Andrea Molaioli, che utilizza una sceneggiatura di Sandro Petraglia, adattamento del romanzo di Karin Fossum “Lo sguardo di uno sconosciuto”.
In un piccolo paese, uno di quelli dove si conoscono tutti, una bimba viene invitata a salire su un auto da uno sconosciuto che scopriamo poi essere Mario (Franco Ravera), anima buona e semplice del borgo, una di quelle persone che non farebbe del male ad una mosca e vuole solo mostrare un enorme coniglio alla sua giovane amica. Temiamo il peggio quando tutto il paese si agita per la scomparsa della ragazzina che scomoda persino il Commissario Sanzio (Toni Servillo, bravissimo), poliziotto del Sud, trasferito in quelle terre, persona dolente, ma capace anche dei suoi bravi scatti d’ira, con problemi familiari di non semplice gestione. La bimba viene ritrovata ma ha visto qualcosa, anzi qualcuno: è la giovane Anna, locale campionessa di hockey femminile, che giace cadavere sulla riva del lago, uccisa da non si sa bene chi. Per il Commissario inizia il consueto “giro” investigativo. I sospetti cadono sul fidanzato, ma sul taccuino dell’ispettore ci sono anche altri personaggi come lo scorbutico padre di Mario (Omero Antonutti), Corrado Canali, conoscente della vittima (Fabrizio Gifuni) e persino il padre di Anna, spezzato dal dolore (Marco Baliani) per l’adorazione nei confronti della figlia.
Lo scorbutico poliziotto inizia a dipanare la matassa, ma i nodi sono tanti e rischiano di aggrovigliare il tutto…
Bell’esempio di poliziesco d’atmosfera, condotto con mano esperta da Molaioli che ha costruito la propria vita artistica lavorando come assistente di regia per autori come Nanni Moretti e Pasquale Pozzessere. Trova il respiro giusto, indovina i personaggi e li modella con una certa abilità e costruisce un ritmo cadenzato e azzeccato, con il suo intreccio che svela a poco a poco tutti gli elementi indispensabili, sia sul versante dell’indagine poliziesca che sugli aspetti privati del Commissario, usufruendo così di un ideale doppio binario, collettivo (il coinvolgimento del paese per l’atroce delitto) e personale.
Nel cast appaiono anche Valeria Golino, Giulia Michelini, Denis Fasolo e Sara D’Amario, mentre i silenzi delle montagne friulane sono spezzati dalle musiche con venature elettroniche di Teho Teardo.
A Venezia è sfilato nella settimana della critica, ma meritava certo un posto in concorso.

domenica 16 settembre 2007

IO NON SONO QUI


Per l’anagrafe è Robert Allen Zimmerman, Per il mondo, musicale e non, è Bob Dylan. Per i “dylaniani” convinti c’è il Bob Dylan folk degli esordi, quello del “tradimento” elettrico, quello della conversione religiosa ed il Dylan contemporaneo, sempre impegnato in un “Never Ending Tour” infinito, sospeso ogni tanto dall’uscita di un nuovo disco.
Le “Dylan variations” finiscono ora sul grande schermo grazie a Todd Haynes, il regista di “Safe”, “Velvet Goldmine” (altro film dedicato alla musica) e “Lontano dal paradiso”, che per “Io non sono qui” si ispira alla musica e alle tante vite di Bob Dylan, elaborando, assieme allo sceneggiatore Oren Moverman, un complesso racconto, caleidoscopico ritratto tra realtà, finzione e citazioni, non tutte afferrabili dal consumatore medio di musica (il fan del “menestrello di Duluth” avrà invece di che divertirsi), in cui Dylan viene frammentato in sei personaggi a cui spetta il compito di raccontarne le varie fasi artistiche ed umane.
Nessuno risponde al nome di Bob Dylan (che appare in filmato d’archivio solo alla fine), ma tutti in fondo lo sono: il giovanissimo “blues.boy” invaghito di Woody Guthrie, da cui ha preso il nome e la chitarra con la celebre frase “this machine kills fascists”, interpretato da Marcus Carl Franklin, che regala un duetto pieno di emozioni con il “grande vecchio” Richie Havens, il malinconico Arthur (Ben Whishaw), il folk singer di protesta Jack Rollins (raccontato anche dalla “partner” musicale Alice, rappresentata dall’attrice preferita di Haynes, Julianne Moore, nel cui personaggio non è difficile riconoscere una donna molto importante nella vita dell’artista…), poi convertito al cristianesimo e trasformatosi in Father John (Christian Bale), il tormentato cantante Jude Queen che sconvolge i puristi nell’Inghilterra dei Beatles e dei Rolling Stones (Cate Blanchett), il divo Robbie (Heath Ledger) ingoiato dal successo internazionale e divorato dal divorzio dalla sua compagna (Charlotte Gainsborough) e il crepuscolare Billy, isolato dal mondo (Richard Gere). Il tutto frullato con una certa passione ma anche un po’ di gioco cerebrale ed intellettuale, di non certo facile assimilazione da parte della generazione MTV, quella che assiste alla disfatta televisiva di Britney Spears ma al massimo di Dylan conosce (forse) “Blowin’ in the Wind”, tra l’altro non inserita in colonna sonora, quest’ultima comunque magnifica perché regala perle dylaniane di grandezza incommensurabile.
Per chi invece frequenta la musica e le evoluzioni artistiche del cantautore americano, troverà momenti di conforto sia cinematografico che musicale, in un ritratto non convenzionale e con i suoi bravi momenti intriganti, ritornato dalla Mostra del Cinema di Venezia con un meritato premio per Cate Blanchett (più un premio speciale della Giuria al film), il Dylan in bianco e nero che si becca i fischi per la svolta rock, gioca con i Beatles gonfi di gas elio, indica i Rolling Stones come una “brava cover band” e incrocia Allen Ginsberg (l’attore David Cross).

LE RAGIONI DELL’ARAGOSTA


Le aragoste hanno il senso dell’umorismo? Ad ascoltare la situazione di una cooperativa di pescatori sardi, non c’è poi tanto da ridere. Sabina Guzzanti sposa la causa della cooperativa e decide di ricostruire il gruppo di “Avanzi” per uno spettacolo speciale in una località dal nome troppo comico, ovvero “Su Pallosu”… Il tutto documentato nel suo ultimo film “La ragioni dell’aragosta”, nuova esperienza cinematografica per l’attrice, ancora una volta regista, autrice ed interprete, dopo l’inatteso successo del precedente “Viva Zapatero!”.
Il film fa scattare tutta una serie di molle emotive e di domande urgenti: la Guzzanti si interroga sulla necessità di farsi coinvolgere da iniziative sociali, sulla sua stessa professione di attrice comica, sull’opportunità o meno di ricostruire l’Avanzi team a così tanto tempo di distanza.
In più c’è la presenza di Gianni Usai, ex operaio Fiat, impegnato in mille battaglie sindacali e passato al mondo della pesca dopo diciotto anni passati in fabbrica. Lui è il “motore” della vicenda, quello che segue passo dopo passo l’evolversi dello spettacolo che sembra non dover nascere mai. Sfilano così la ritrosia di Pier Francesco Loche, ritiratosi in Sardegna e con il ritmo nel sangue (ma la sua batteria non riesce proprio a “sposarsi” con il resto della band musicale dello show…), le perplessità di Antonello Fassari che non si ritrova più in quella dimensione e non ne vuole proprio sapere del clown Cipollone, la crisi di Cinzia Leone che sappiamo reduce da una tremenda esperienza personale, lo spirito di Francesca Reggiani e l’umore un po’ “caciarone” di Stefano Masciarelli (mancano all’appello Corrado e Caterina Guzzanti). Come non bastasse tutto questo salta fuori uno spazio che si rivela inadeguato, con successiva ricerca affannosa di un luogo idoneo, poi rintracciato in un grande anfiteatro a Cagliari per ospitare uno show dal parto davvero difficile. Sfilano vecchi “clips” di “Avanzi”, si ripensa con nostalgia ad una televisione che non tornerà più, invasa com’ è dalla prepotenza dei politici e da una programmazione sempre più impersonale e per nulla capace di suscitare vere emozioni, tanto meno risate liberatorie e caustiche e si segue un percorso narrativo che ci porta ad una inatteso colpo di scena finale che ribalta tutte le convinzioni acquisite nel corso della proiezione, in un ribaltamento tra realtà e finzione…
Forse però il problema è il viaggio cinematografico verso questa conclusione inattesa: ci si abbandona un po’ alla nostalgia e alle (doverose) riflessioni d’artista, ci si abbandona più ai pensieri che alle risate, ci si ritrova in compagnia di “vecchi amici” piuttosto cambiati e in qualche momento ci si annoia un pochino. “Viva Zapatero!” aveva una maggiore forza dirompente, qui si assiste più ad un gioco che tira fuori alla fine un bell’asso nella manica ma risulta non sempre di uguale brillantezza. Come aprire un’aragosta: lavori tanto, ma alla fine salta fuori una buona sorpresa…

PREMONITION


Linda Hanson è felicemente sposata con Jim, ha due figlie che adora e vive tranquillamente le sue giornate, con il suo bravo “tran-tran” che comprende il portare le figlie a scuola e rigovernare la casa. Tutto normale, tutto a posto… Ma un brutto giorno Linda riceve la tragica notizia della morte improvvisa del marito in un incidente. Il buio scende sulla casa e la donna non può far altro che accingersi a preparare il rito funebre. Ma al risveglio Jim è ancora al suo posto, nel suo letto. Cosa sta succedendo nella mente di Linda?
“Premonition” è un film interpretato da Sandra Bullock e diretto dal regista tedesco Mennan Yapo, su sceneggiatura di Bill Kelly: un andirivieni continuo tra sogni e premonizioni per la sempre più tormentata protagonista. Oltre alla morte del marito (interpretato da Julian MacMahon, visto nei tempi recenti nei panni del Dottor Destino nei due “Fantastici Quattro”) nelle sue “veggenze” si fanno avanti anche un brutto incidente per la figlia più grande che si deturpa il volto per uno scontro con una vetrata ed uno psichiatra (Peter Stormare) che Linda non conosce, non ha mai visto e da cui non ha certo ricevuto i medicinali che si ritrova nel bagno.
Siete già confusi a questo punto? Beh, lo sviluppo della storia non è esattamente lineare e il giochino “marito morto-marito vivo” con scoperte di “altarini” (c’è la consueta tresca extra coniugale con la bella vice presidente dell’azienda interpretata da Amber Valletta) da parte della moglie man mano che la trama si sviluppa, rendono il tutto ancora più caotico. Riuscirà Linda a salvare la pellaccia al consorte, visto che sa esattamente come morirà?
Personaggi che vanno e vengono, anche sacrificati nell’economia della trama (vedi il povero Peter Stormare che non è che abbia esattamente ampio spazio…) per 96 minuti (la prima versione arrivava a 110 minuti poi qualcuno deve aver suggerito al regista che qualche taglio poteva rendere più appetibile il film, anche se le forbici in sala di montaggio non lo hanno reso certo più digeribile) di scarsa attrattiva, dove sono coinvolte anche Kate Nelligan nei panni della madre di Linda e Nia Long in quelli dell’amica di Linda Annie.
Sandra Bullock cerca in ogni modo di rinvigorire una carriera più appannata che solida, ma questo film non fa certo punteggio nel curriculum anche se il film ha avuto in America un discreto successo al botteghino con 47 milioni di dollari raccolti nel periodo primaverile.

IO VI DICHIARO MARITO…E MARITO


Pompieri, “machi”, molto uomini… Figuratevi le reazioni quando si viene a scoprire che due membri della squadra sono uniti in matrimonio. Ma in realtà il matrimonio è una finzione per qualcos’altro…. Succede in “Io vi dichiaro marito… e marito”, il film di Dennis Dugan (forse qualcuno ricorderà il divertente “Gli sgangheroni del 1992, ma nella sua filmografia c’è anche “Un tipo imprevedibile”, dal cui titolo originale, “Happy Gilmore”, Adam Sandler ha tratto il nome della sua casa di produzione), commedia dell’estate in America, con un incasso al botteghino di ben 114 milioni di dollari ed un punta in orgoglio in più per aver tolto la “pole position” al quinto “Harry Potter”. Scritto da un trio di sceneggiatori che annovera anche Alexandre Payne, il regista di “Sideways” (gli altri due sono Barry Fanaro e Jim Taylor, quest’ultimo condivide l’Oscar con Payne proprio per la sceneggiatura di “Sideways”), il film di Dugan segue le tendenze più recenti che trasportano le tematiche a sfondo omosessuale non solo in contesti drammatici, ma anche in momenti di risate e divertimento (la serie tv “Will & Grace” insegna…).
Succede allora che i bravi pompieri Chuck Levine (Adam Sandler) e Larry Valentine (Kevin James), amici per la pelle, siano costretti ad inscenare una relazione gay con tanto di nozze celebrate a Las Vegas, per permettere al vedovo Larry, con due figli a carico, di non perdere i contributi per la pensione. Per Chuck, donnaiolo scatenato, all’inizio è molto dura, ma per l’amico si farebbe davvero in quattro e così si trasferisce a casa Valentine. Si fanno aiutare dall’avvocato Alex McDonough (Jessica Biel) affascinante al punto di mettere in crisi il povero Chuck che si innamora della bella “principessa del foro”, ma non può lasciare Larry in difficoltà. E poi c’è l’acuto investigatore fiscale Clinton Fitzer (Steve Buscemi) sospettoso della finta unione dei due, l’atteggiamento di intolleranza dei colleghi ed il loro capo unità (Dan Aykroyd) che scopre tutto e non vuole beghe nella sua compagnia.
Più rischioso di un incendio, non c’è che dire… Il film è dotato di spunti divertenti nella prima parte (vedi il salvataggio del super obeso da un incendio) ma poi perde di mordente nel suo sviluppo troppo accomodante per arrivare alla classica conclusione finale di riscatto in un processo (il giudice è Richard Chamberlain, così “liftato” da sembrare una statua di cera…) e la soluzione risolutiva che rende tutti felici e contenti. Certo ci si preoccupa nel film delle intolleranze verso gli omosessuali e Chuck e Larry diventano paladini dell’orgoglio gay, portando anche i più timorosi a fare “outing” (è il caso del pompiere Ving Rhames, per anni con il suo segreto custodito gelosamente), ma il prodotto non ne esce del tutto vincente, con qualche punta di delusione per la mancante brillantezza che ci si aspettava maggiormente dalla scrittura di Payne/Taylor.

mercoledì 5 settembre 2007

4 MESI, 3 SETTIMANE, 2 GIORNI


Palma d’Oro al Festival di Cannes 2007 per “4 mesi, 3 settimane, 2 giorni”, un ritratto amaro, desolante e tragico della Romania comunista, negli ultimi anni della dittatura Ceausescu. Un paese raccontato attraverso la dolorosa esperienza di due studentesse, Otilia (Anamaria Marinca) e Gabita (Laura), fissata sul grande schermo dalla sceneggiatura e dalla regia di Christian Mungiu, quarant’anni, carriera da insegnante alle spalle ed una filmografia che comprende alcuni corti ed il film “Occident”, comparso nel 2002 alla Quinzaine des réalisateurs a Cannes.
1987, in uno studentato Gabita riempie nervosamente la valigia. Si sta preparando per un viaggio, assieme all’inseparabile amica Otilia, ma l’itinerario è quanto mai doloroso: la sua meta è infatti una camera d’albergo a Bucarest dove incontrerà il signor Bebe (Vlad Ivanov) per abortire clandestinamente. A dolore si aggiunge dolore perché il meticoloso e severo Bebe chiede alle ragazze prestazioni sessuali in cambio del servizio e Otilia deve pure risolvere alcune questioni con il fidanzato.
La macchina da presa del regista si insinua con grande rigore negli spazi chiusi, nei silenzi “chiassosi”, nel dramma palpabilissimo delle due ragazze, nella tensione di Otilia, bloccata a casa del fidanzato per il compleanno della mamma di quest’ultimo e desiderosa di avere notizie sullo stato di salute dell’amica e nella disperata corsa notturna di Otilia nel buio avvolgente della notte per sbarazzarsi in modo impietoso di quel feto che ha vissuto solo quattro mesi, tre settimane e due giorni (da qui il titolo).
Molta macchina da presa fissa e qualche piano sequenza in questo quadro intimo eppure così tristemente collettivo per narrare la storia di un paese che ha sofferto (dal 1966 al 1989 in Romania sono state registrate novemila donne morte per le interruzioni di gravidanza) e che fatica a fare i conti con il suo tragico passato. Un contributo viene proprio dal film di Mungiu che attraverso la toccante esperienza di Gabita e Otilia racconta, con una decisa prova di carattere, le lacerazioni individuali causate da un mondo “controllato” ed impossibilitato a trovare la sua libertà.
Peccato che il regista abbia deciso di scioccare il pubblico con l’immagine del feto abbandonato sul pavimento del bagno: una scena non necessaria, visto anche che per tutta la durata del film il regista tende a suggerire più che mostrare mostrando una sua brillante personalità. Gli sguardi smarriti, la paura ed i silenzi delle due ragazze (come quello conclusivo a tavola) sono molto più eloquenti di un momento francamente disturbante.

CAPTIVITY


La “prima volta” del regista Roland Joffé nel genere thriller (con tocchi horror) è praticamente un disastro (vedi anche alla voce “botteghino Usa” con incassi attorno ai due, dicesi due, milioni e 600 mila dollari
Utilizzando una sceneggiatura del veterano Larry Cohen (la trilogia del “poliziotto maniaco” ed in tempi più recenti “Phone Booth” e “Cellular”) qui assistito dall’esordiente Joseph Tura, il regista di “Urla del silenzio” e “Mission”, mancante dal grande schermo da ben sette anni (la sua ultima fatica è stato lo storico-gastronomico “Vatel”), si cimenta con le atmosfere claustrofobiche che oggi vanno per la maggiore se guardiamo a “modelli” (non certo però di grande ispirazione) tipo “Hostel” o “Saw”, aggiungendo la consueta dinamica dell’ossessione del maniaco di turno per la sua vittima.
Una bella modella, Jennifer (Elisha Cutberth, reduce dal serial “24”e non certo digiuna di atmosfere orrorifiche visto che ha interpretato “House of Wax”) è oggetto di attenzioni di un misterioso individuo. Drogata durante una festa in discoteca Jennifer si ritrova rinchiusa in una stanza e tutti i suoi tentativi di fuga si rivelano inutili, con successive e crudeli punizioni per la ragazza (compreso un frullato di organi umani fatto ingurgitare a forza via imbuto). Ma Jennifer non è sola con il suo rapitore: la sua cella confina con quella di Gary (Daniel Gilles, visto in “Matrimoni e pregiudizi” e nei panni di John Jameson in “Spider Man 2”), anche lui prigioniero e i due si coalizzano per combattere il loro comune nemico. Ci scappa pure un po’ di sesso….
Ma la sorpresa (sai che sorpresa: se state attenti il giochino è facile da scoprire) è tra le mura della stanza, dove si celano i soliti, immancabili “scheletri nell’armadio”.
Film bello tediosetto, fortunatamente di durata ridotta (90 minuti circa) con la Cuthbert impegnata in un ruolo di “oggetto del desiderio” ma non così accattivante come il personaggio richiede (ci voleva un attrice capace di una maggiore attrazione erotica, qui rimaniamo sul versante della ragazza carina e basta…), topi ed ambienti fetidi, voyeurismo a “go-go”, i soliti poliziotti che vanno a finire male, una parte ridotta per Pruitt Taylor Vince (altro componente del ridotto cast), qualche “spruzzata” di stile cinematografico “alternativo” e un po’ “fighetto”, la resa dei conti conclusiva con le solite abusate frasi tipo “Tu sei una bambina molto cattiva” (e basta!) e la “coglionaggine” dimostrata dal colpevole che in pratica serve a Jennifer la vendetta su un piatto d’argento…
Davvero nulla che ci cambi la vita a livello di profonde tensioni…

PROVA A VOLARE


È dal 2003 che questo film “Prova a volare” e ora è riuscito a spiccare il salto verso le sale cinematografiche, grazie all’effetto Scamarcio, divo a tutti gli effetti che trasforma decisamente in oro, pardon in incassi i film con lui come protagonista. Eppure questo film non ha fatto la “botta” (al box office italiano ha vinto questa settimana la commedia romantica made in Usa “Il bacio che aspettavo”), probabilmente perché le “fans” dell’attore sapevano già che il film di Lorenzo Cicconi Massi è una delle prime prove come attore di Scamarcio, che ha anche recentemente dichiarato di non amare il film, al punto che non lo trovate inserito nella sua biografia sul sito ufficiale (si è dovuto invece arrendere e ha inserito il poster e qualche info sul film, perché non si può certo nascondere la testa sotto la sabbia per lungo tempo…)
Così il giovane Scamarcio muoveva i primi passi del dorato mondo del cinema interpretando il ruolo di Alessandro, ventenne di Senigallia trovatosi improvvisamente sulle spalle la gestione dell’azienda di famiglia, per via della morte del padre in un incidente. La vita di fabbrica gli sta però stretta e preferisce mettersi dietro ad una telecamera per riprendere matrimoni con il “socio” interpretato da Antonio Catania. Proprio in uno di questi matrimoni incrocia la giovanissima Gloria (Alessandra Mastronardi, giovane attrice che oggi frequenta la sit-com “I Cesaroni”), già con abito nuziale indossato che di punto in bianco molla sposo, parenti ed amici e fugge proprio con Alessandro, coinvolto suo malgrado nella fuga della ragazza. Un lungo viaggio verso il Sud dove la fanciulla ha un appuntamento per abortire ed iniziare una nuova vita. Tra Alessandro e Gloria scoppiano litigi e discussioni, ma arriva pure il bacio, mentre il furioso papà (Ennio Fantastichini) è sulle tracce della sconsiderata pargola.
Il tutto in una sorta di road-movie dalle Marche alla Basilicata, avvolto nelle consuete atmosfere “carine” e da fotoromanzo di molto cinema italiano “giovanile” che francamente inizia a stancare e non importa se il film in questione è di quattro anni fa.
E poi c’era proprio bisogno di ritirare fuori questa acerba pellicola con un ancora più acerbo Scamarcio (che qualche cosa di buono l’ha poi fatta, vedi “Mio fratello è figlio unico”) giusto per non mandare in crisi di astinenza le sue adoranti sostenitrici? Ci sono film molto più belli ed interessanti che non passano in sala, arrivano direttamente in DVD e a volte neppure quello per cui li devi rintracciare all’estero…

sabato 1 settembre 2007

HARRY POTTER E L’ORDINE DELLA FENICE

La “Potter Invasion” non accenna a fermarsi: il quinto film “Harry Potter e l’ordine della fenice” è ancora nelle sale cinematografiche, sappiamo praticamente tutto sulla fine del settimo ed ultimo volume, ma lo attendiamo con ansia in Italia, con la sua brava traduzione, per i primi giorni del 2008.
Inutile scomodarsi più di tanto: Harry Potter piace. Punto e basta. Difficile trovare una simile partecipazione collettiva di fronte ad un personaggio che è cresciuto assieme ai suoi lettori, ormai perfettamente in sintonia con la sua crescita sempre più problematica e la battaglia sempre più difficile con il mortale nemico Voldemort.
Per “Harry Potter e l’ordine della Fenice” c’è un nuovo regista (David Yates, direttore britannico che viene dal piccolo schermo, probabilmente dietro alla macchina da presa anche per il prossimo), un nuovo sceneggiatore (Michael Goldberg, già autore dello “script” dell’ultimo “Peter Pan”), mentre sono al loro posto i bravissimi attori del cast, con alcune nuove entrate di spicco tra cui la brava Imelda Staunton che tratteggia l’odiosa professoressa Umbridge con il giusto tasso di antipatia e Helena Bonham Carter a cui spetta la cattivissima Beatrix Lestrange, senza dimenticare i nuovi personaggi fantastici come il gigante Grop o l’elfo Kreacher.
Si respira aria di rivolta a Hogwarts: il Ministero della Magia non crede al ritorno di Voldemort ed ha piazzato la rigorosa professoressa Umbridge a controllare le attività degli studenti, impedendogli di fatto di esercitare a scuola le arti magiche ed arrivando a sostituire persino Albus Silente. Ma Harry, sempre più sconvolto dall’avvicinarsi dell’influenza “scura” di Voldemort, non ci sta e con l’aiuto dei fidati Ron e Hermione e gli altri amici (Neville, Ginny, la stravagante Luna Lovegood ed altri studenti) tiene corsi clandestini per prepararsi al nuovo attacco di Voldemort, il quale è alla disperata ricerca di un prezioso elemento per la sua vittoria…
In una Hogwarts sconvolta dalla repressione istituzionale e dallo spirito di contestazione dei magici studenti, c’è spazio anche per il primo bacio di Harry Potter con l’amata Cho Chang, che provoca applausi a scena aperta…
138 minuti di buon impianto spettacolare e narrativo con un’efficace attenzione ai personaggi (anche se qualche carattere viene irrimediabilmente sacrificato) inseriti in una trama assai prosciugata rispetto al romanzo, il che permette una fruizione più compatta per lo spettatore che si trova di fronte allo schermo, assorbito senza distrazioni dall’evolversi degli eventi.

DISTURBIA

Dai tempi de “La finestra sul cortile” sappiamo benissimo che è pericoloso spiare il vicino…. Ma è anche pericoloso stare troppo “appiccicati” a modelli insuperabili, come succede a “Disturbia”, il film diretto da David J. Caruso (“The Salton Sea”, “Rischio a due”) e scritto da Christopher Landon e Carl Ellsworth, ambedue con la mente fin troppo rivolta al capolavoro hitchockiano.
Spostato sul versante adolescenziale con l’utilizzo di una nuova star come Shia LaBeouf (apparso in “Guida per riconoscere i tuoi santi” ed ora consacrato da “Transformers” e dal ruolo di una carriera, ovvero il figlio di Indy nell’attesissimo quarto episodio di “Indiana Jones”), presenza in grado di attirare in America molti teen agers raccogliendo ben ottanta milioni di dollari al botteghino, “Disturbia” è la storia di Kale, giovanotto che ha visto morire il padre in un incidente e in un momento di rabbia ha tirato un cazzotto in faccio al suo prof di spagnolo. Morale della favola: arresti domiciliari con tanto di braccialetto alla caviglia che gli impedisce di uscir fuori dal cortile e controllo da parte della madre apprensiva (è Carrie Ann-Moss) che cerca in tutti i modi di ristabilire l’equilibrio familiare. Quindi niente X-Box e niente tv per Kale e nella noia della prigionia non rimane altro che osservare i vicini di casa. Il che va bene quando si tratta di scrutare i particolari della vita della bellissima dirimpettaia appena arrivata nel quartiere, Ashley (Sarah Roemer), un po’ meno quando Kale inizia ad avere sospetti riguardo al signor Turner (David Morse): che sia effettivamente il serial killer che rapisce ragazze con i capelli rossi e che sta terrorizzando la provincia? Ovviamente nessuno crede a Kale e le prove raccolte non riescono a convincere neanche i poliziotti…
Il thriller “Disturbia” ha se non altro il vantaggio di uscire per un attimo dalla media dei prodotti orrorifici confezionati per il pubblico giovanile, giocando sulla tensione che non sugli effettacci sanguinolenti. Ma la narrazione non appare del tutto convincente e il continuo richiamo alla celebre finestra del “mago del brivido” e David Morse che prende troppo a riferimento l’Anthony Hopkins modello “Hannibal Lecter” ne fanno perdere in vitalità ed originalità, anche per via di un ritratto di quartiere troppo “costruito” e non sempre in grado di suscitare la giusta inquietudine stile “il mio vicino è un killer”.
Rimangono la faccina da bravo ragazzo del giovane interprete e qualche colpo finale che alza il tasso di adrenalina e riesce se non altro a riportare l’attenzione dello spettatore verso un prodotto di non particolarmente esaltanti intuizioni cinematografiche e narrative.