lunedì 22 ottobre 2007

QUEL TRENO PER YUMA

Remake e sequel. Sequel e remake…. Da Hollywood non sembrano arrivare grandi segnali di creatività e di novità, vista l’affannosa corsa ai rifacimenti e ai seguiti. Così può andar bene al botteghino, ma meno bene su altri versanti. Prendete “Quel treno per Yuma”. L’originale è del 1957, per la regia di Delmer Daves e la coppia di interpreti principali è formata da Glenn Ford e Van Heflin. Un gran western, signori, dominato da avvolgenti tempi di attesa e con lezione morale indimenticabile. Nel 2007 James Mangold, regista che ci aveva entusiasmato con il bellissimo “Walk the Line” – Quando l’amore brucia l’anima”, firma il remake, sempre prendendo spunto dal racconto di Elmore Leonard (qui adattato dagli sceneggiatori Michael Brandt e Derek Haas, già autori dello script di “2 Fast 2 Furious”) e mettendo al centro della vicenda i due divi Russell Crowe e Christian Bale, motivo certo di richiamo per gli spettatori.
Buoni incassi al botteghino (più o meno 50 milioni di dollari, con un primo posto al box office nel primo fine settimana) per via di una certa fame di film western, ma risultato finale che non ritorna adeguatamente ai capisaldi di un genere che per qualcuno “è il cinema stesso”.
Nell’epopea cinematografica western classica di ben altro carattere erano i tempi, i personaggi, le situazioni: qui ci troviamo davanti ad un compito eseguito ma non privo di incongruenze (lo zoppo Dan Evans che ad un certo punto corre come una gazzella…) e abbastanza lontano come “anima” dalle più genuine atmosfere dei film ambientati nel “lontano ovest” che riempiono tuttora gli annali della storia del cinema (decisamente meglio, negli ultimi tempi, è andata al buon Kevin Costner con “Terra di confine”, crepuscolare ed in buona sintonia con i canoni del genere). Colpa di tempi troppo dilatati che non riescono a definire la giusta tensione, di sprazzi spettacolari non sempre equilibrati e di una coppia di attori che domina troppo il film, restando “sospesi” rispetto al progetto generale. La storia dell’agricoltore Dan Evans (Christian Bale) che, spinto da condizioni economiche disperate, scorta il criminale Ben Wade (Russell Crowe) verso la città di Contention dove verrà messo sul treno per Yuma e per il suo destino, ritorna con dovizia di mezzi, schermo panoramico e l’utilizzo degli avvolgenti scenari naturali del New Mexico, senza raggiungere la dinamica tensione dell’originale
Nel cast del nuovo “Yuma” ci sono anche Ben Foster (il socio di Wade, cattivo, cattivissimo), Gretchen Mol (Alice, la moglie di Evans) e Peter Fonda, nei panni di un anziano agente Pinkerton.
Paolo Pagliarani

RATATOUILLE

Un topo in cucina? E per giunta in un esclusivo ristorante parigino? Sacre bleu, non si può, a meno che non siamo in compagnia dei geniacci della Pixar, casa che al momento non ha eguali per la qualità delle “pietanze animate” e il topo in questione sia un tenero animaletto tutto pixel ed olfatto straordinario. “Ratatouille”, titolo che riprende il nome della più celebre ricetta provenzale, piatto con un ruolo importante nel film, è la nuova produzione animata Pixar (con distribuzione Disney che sappiamo quanto ci tenga ai topi…), scritta e diretta da Brad Bird, già regista de “Gli incredibili”. Il topo in questione si chiama Remy e alla spazzatura preferisce il “gourmet”. Ispirato dal defunto cuoco Gusteau, Remy si trova separato dalla sua colonia ed arriva proprio nel ristorante del grande chef, negli ultimi anni un po’ in declino e con due stelle in meno, anche per colpa del severo critico culinario Anton Ego. Nella cucina capitanata dall’avido chef Skinner, più propenso a creare linee di cibi surgelati che ad entusiasmare i palati altrui, c’è anche il timido sguattero Linguini che, per via dell’abilità culinaria di Remy, viene scambiato per un bravissimo cuoco. I suoi piatti vanno a ruba e così Linguini si allea di nascosto con Remy per creare succulenti manicaretti. Ma la storia si complica con l’arrivo della colonia di ratti a cui appartiene il cuoco-chef, con i sospetti di Skinner, con un segreto nel passato del giovane nuovo cuoco, con la chiamata di un ispettore sanitario e, quel che peggio, con il ritorno di Anton Ego nel ristorante, curioso di assaggiare le specialità decantate.
“Ratatouille” è davvero gustoso, simpatico e realizzato in modo impeccabile. Il topolino protagonista fa impazzire piccoli e grandi spettatori (già c’è chi invita a non acquistare topi domestici da tenere in casa) e la storia, che ha anche degli angolino romantici, si muove tra pentole, verdure, spezie, sapori e, sembra quasi di sentirli, profumi. Praticamente uno dei migliori film culinari degli ultimi anni, nonostante il paradosso di un ratto in un luogo da mantenersi pulito ed immacolato come la cucina di un grande ristorante. Ma come dice lo stesso Gusteau, “tutti possono cucinare”, l’importante è avere fantasia, creatività e conoscere alla perfezione sapori ed odori, facendo anche attenzione a spostare lo sguardo in avanti per trovare nuove aspirazioni.
Condito dalla briosa colonna sonora di Michael Giacchino che aveva già firmato lo score” de “Gli incredibili”, “Ratatouille” si avvale nella versione originale delle voci di Patton Oswalt, Ian Holm, Brian Dennehy, Jeaneane Garofano e Peter O’ Toole.
Prima del film il consueto cortometraggio: questa volta è “Stu”, con un alieno pasticcione alle prese con i comandi dell’astronave…
Paolo Pagliarani

venerdì 19 ottobre 2007

ANGEL

Nelle sale cinematografiche va di moda il “film-romanzo”, o meglio opere in cui la creazione letteraria si intreccia con la vita. Succede in “Espiazione” di Joe Wright, capita in “Becoming Jane” di Julian Jarrold ed ora è giunto anche “Angel”, scritto e diretto da François Ozon (“Sotto la sabbia”, “Swimming Pool”, “Otto donne ed un mistero”, “5x2”) che ha adattato il romanzo di Elizabeth Taylor (no, non la protagonista di “Cleopatra”, ma la scrittrice inglese originaria del Berkshire e morta nel 1975…).
La pimpante Angel Deverell (Romola Garai, vista di recente in “Scoop”, “As you like it” ed “Espiazione”) ha un sogno ricorrente in testa: diventare una scrittrice di successo. La sua determinazione è tale che riesce a superare le costrizioni della sua vita modesta e ad affermarsi in campo letterario, grazie anche all’intuito dell’editore Théo (Sam Neill: negli ultimi anni più attivo sul piccolo schermo che sul versante cinematografico, molti lo ricordano anche nel “Dottor Zivago” televisivo del 2002, diretto da Giacomo Campiotti), sposato non certo felicemente con l’acida Hermione (Charlotte Rampling, attrice che frequenta spesso i film del regista parigino). Angel riesce ad ottenere tutto ciò che desidera: la fama, l’amore per il giovane Esmé (Michael Fassbender, coinvolto negli ultimi tempi nel cast di “300”), la villa agognata ai tempi della scuola, denominata “Paradise” e pure l’adorante assistenza della sorella di Esmé, Nora (Lucy Russell: era la protagonista de “La damigella e il duca” di Eric Rohmer)).
Tutto questo capita nel ventesimo secolo e la guerra è destinata a frantumare la vertigine del successo che ha completamente avvolto la protagonista.
“Angel”, uno dei film meglio riusciti di Ozon, è costruito nella prima parte su una cadenzata briosità da commedia, amplificata dalla vitale presenza dell’attrice principale su cui i panni della Deverell calzano perfettamente. Poi il film ruota sempre di più verso il corposo melodramma, inevitabile visti i tempi in cui è ambientato, con Angel impossibilitata a ritrovare il suo “paradiso” e sempre più avvolta dal dolore e dalla sconfitta.
Tra curate atmosfere romantiche, seducenti ispirazioni letterarie, indovinate soluzioni estetiche e “locations” azzeccate (riprese effettuate tra Inghilterra e Belgio), “Angel” è certamente opera emotivamente coinvolgente e decisamente meno “cerebrale” rispetto ad altre opere dell’autore.
Paolo Pagiarani

mercoledì 17 ottobre 2007

BECOMING JANE

La vita è un romanzo. Almeno nelle intenzioni del regista Julian Jarrold (l’autore dello spiritoso “Kinky Boots” e tra l’altro anche di un “Grandi Speranze” televisivo e prossimo a riportare al cinema “Brideshead Revisited” dal romanzo di Evelyn Waugh) che ha provato a cimentarsi, assieme agli sceneggiatori Kevin Hood e Sarah Williams, con la figura della scrittrice Jane Austen non attraverso le sue celebri pagine letterarie ma dal punto di vista della sua vita privata, nella sua giovane età, quando la ragazza soffriva per le sue personali pene d’amore (come è noto la scrittrice non si è mai sposata) e iniziava a partorire il suo romanzo più famoso “Orgoglio e Pregiudizio”.
Così seguiamo le altalene sentimentali della Austen, infatuata di Tom Lefroy, giovane irlandese prossimo all’avvocatura ed amante della bella vita, ma spinta dalla famiglia, in situazione economica non floridissima, a sposare il nipote dell’arcigna e ricca Lady Gresham. Un po’ defilate rispetto alle amorose (e deludenti) vicende della scrittrice, le vite della sorella Cassandra, promessa sposa ad un giovane pastore e del fratello (nella vita reale i fratelli della Austen erano ben sei) Henry, oggetto del desiderio della bella vedova De Feullide.
Il risultato complessivo di “Becoming Jane” è quello di una corretta biografia un po’ romanzata, ma che non riesce a spiccare del tutto il volo e rimane “a terra” pur restando uno spettacolo dominato da garbo e pulizia formale.
Nei panni di Jane Austen la giovane Anne Hathaway, attrice di grido degli ultimi tempi, già in “Il diavolo veste Prada”, graziosa quanto basta ma le cui origini newyorkesi le impediscono di essere “inglese” fino in fondo, mentre per il ruolo di Tom Lefroy è stato chiamato il giovane James Mc Avoy, recentemente “intrecciato” ad un altro film dall’anima letteraria ovvero “Espiazione” di Joe Wright.
Ma i veri “assi nella manica” del cast sono attori del calibro di James Cromwell (il reverendo Austen, padre di Jane), Julie Walters (la signora Austen), Ian Richardson (il giudice Langlois) e la monumentale Maggie Smith, la cui Lady Gresham è esattamente ciò che ci aspetteremmo da un simile personaggio.
“Locations” in Irlanda ed Inghilterra e cast artistico che vede la presenza di abituali collaboratori di Jarrold come il direttore della fotografia Eigil Bryld, del compositore Adrian Johnston e della montatrice Emma E. Hickox (il padre è il regista Douglas mentre mamma, Anne V Coates, fa lo stesso lavoro della figlia ed ha vinto nientemeno che un Oscar per “Lawrence d’Arabia”), dal nome decisamente “austeniano”.
Paolo Pagliarani

STARDUST

Le stelle sono tante, milioni di milioni… Ma se sul grande schermo ne cade una come minimo ha le fattezze di una bella fanciulla. Esattamente ciò che succede nella fiaba “Stardust”, regia di Matthew Vaughn, già regista di “The Pusher” con Daniel Craig, amico e produttore di Guy Ritchie (nonché testimone di nozze al matrimonio di quest’ultimo con Madonna), marito di Claudia Schiffer ed ora al lavoro sul film dedicato al mitico Thor. La sceneggiatura, dello stesso Vaughn assieme a Jane Goldman è ricavata dal romanzo di Neil Gaiman e Charles Vess, ed è la storia di una stella caduta, un giovanotto che cerca di recuperarla per farne dono alla ragazza più bella del villaggio di Wall (così chiamato per via di un lungo muro che separa l’abitato da un luogo misterioso), una strega perfida che cerca il cuore della stella per ricavarne la pozione per l’eterna giovinezza, una nave pirata con un bizzarro comandante dai modi apparentemente burberi a caccia di fulmini e sette fratelli in lotta tra loro per la conquista del trono di un magico regno.
Ingredienti sfiziosi ed il prodotto finale risulta davvero convincente con un apprezzabile mix di avventura, romanticismo, magia, ironia e qualche simpatica “trasgressione”, adatta però ad un pubblico familiare (Robert De Niro in abiti femminili…).
Originariamente destinato a Terry Gilliam che ha reclinato l’invito per “riposarsi” dalle favole dopo “I fratelli Grimm”, “Stardust” non ha però trionfato al botteghino americano e non si capisce il perché, vista la gradevolezza dell’insieme e la presenza di un ricco cast che oltre al già citato De Niro (capitan Shakespeare) vede impegnati la bellissima Michelle Pfeiffer nei panni della strega Lamia, con il fascino che si “sgretola” (un monito all’eccessivo ricorrere dei lifting?) a poco a poco, il giovane Charlie Cox nei panni del protagonista Tristan, Claire Danes in quelli della stella Yvaine, Sienna Miller per la “desiderata” Victoria, la giovine per cui Tristan va alla ricerca dell’astro caduto dal cielo e poi Mark Strong nei panni del cattivo Septimus, Ricky Gervais in quelli di un astuto mercante ed apparizioni speciali di Peter O’ Toole (il vecchio re) e Rupert Everett, il fratello chiamato Secundus, che si diverte ad interpretare il ruolo di un fantasma con il volto schiacciato.
Il ritmo incalza man mano che si procede nella storia, le suggestioni ci sono tutte (bella la nave pirata metà veliero e metà mongolfiera), la Pfeiffer ammicca seducente e si diverte a fare la cattiva (del resto aveva già fatto la “strega di Eastwick”) e la famiglia si può felicemente riunire in una sala cinematografica.
Dimenticavo, ci sono anche delle “stelle” ritornate nel firmamento del pop, ovvero i “Take That” a cui spetta il compito della canzone finale sui titoli di coda…
Paolo Pagliarani

INVASION

Una storia inossidabile… Resiste alle ingiurie del tempo la trama del romanzo di Jack Finney “The Body Snatcher”, adattato per ben quattro volte sul grande schermo. La prima fu in piena era maccartista, alla regia c’era il grande Don Siegel e “L’ invasione degli ultracorpi”, quella dei grossi bacelli, divenne un classico di fantascienza ed un contenitore di paure assortite. Poi ci furono l’urlo agghiacciante degli alieni di “Terrore dallo spazio profondo” di Philip Kaufmann (1978) e i filamenti “bavosi” della versione “militarizzata” di Abel Ferrara del 1993 (“Ultracorpi – l’invasione continua”. E oggi? Ecco “Invasion”, film dalla lavorazione più travagliata di un attacco extraterrestre, passato dalle mani del tedesco Olivier Hirschbiegel a James McTeigue che ha completato alcune sequenze, non accreditato. Così il film, già pronto nel 2006, nonostante la coppia di due star nei ruoli principali (Nicole Kidman e Daniel Craig) è arrivato solo ora nelle sale e negli Stati Uniti ha clamorosamente “bucato” al botteghino.
La storia è del resto nota (il pubblico si è forse stancato degli “ultracorpi”?): gli alieni “rubano” i corpi (in questa versione attraverso i fluidi corporei), impossessandosi delle fattezze fisiche e spersonalizzando gli umani. La mancanza di emozioni è l’elemento di riconoscibilità della minaccia spaziale e la psichiatra Carol Bennell si accorge dei vistosi cambiamenti della psiche, sia attraverso alcuni clienti che con l’ex marito (Jeremy Northam), il primo ad aver toccato la strana sostanza piovuta dal cielo attraverso i relitti di uno Shuttle saltato per aria (come dire, attenzione a ciò che inviamo nel cosmo!).
La dottoressa, con l’aiuto del medico Ben Driscoll (se conoscete bene il primo film, nomi e cognomi di alcuni personaggi vi suoneranno familiari), con cui ha un rapporto non solo professionale, cerca di capire cosa sta dietro al misterioso virus che ha messo in ginocchio la popolazione degli Stati Uniti e cerca anche di salvare il figlioletto dalla minaccia spaziale, scoprendo che il suo amato pargolo è pure la chiave per risolvere la situazione…
Ritmo pressante e inquietudini presenti: il remake è di discreta fattura ma non si riesce a digerire la morale finale secondo questa versione, dove sembra quasi da preferire un mondo disumanizzato ma senza guerre e violenze, piuttosto che la normalità con tutti i suoi problemi e le sue brave angosce quotidiane. Un mondo senza affetti meglio di uno dove batte forte il cuore dell’emozione? Nell’originale di Don Siegel forte e decisa era invece la reazione dell’individuo normale (il medico protagonista) nei confronti della perdita di personalità, in un mondo sempre più “meccanico” e incapace di ascoltare.
Oltre all’affascinante e un po’ gelida coppia di interpreti principali, in “Invasion” ci sono Jeremy Northam, il giovane Jackson Bond, Jeffrey Wright e, citazione per cinefili, Veronica Cartwright, già nel cast dell’invasione del 1978.

venerdì 12 ottobre 2007

Mr. Brooks

Kevin Costner, William Hurt e Demi Moore. Qualche anno fa, se messi insieme nello stesso film, potevano passare come “cast stellare”. Oggi invece sembra più una rimpatriata tra divi anni ’80 sempre in cerca di affermazioni in carriere contraddistinte da alti e bassi. Giudicate voi: Kevin Costner ha “ballato coi lupi”, William Hurt ha vinto un Oscar per “Il bacio della donna ragno” e Demi Moore ha avuto i suoi fasti come sex-symbol e come romantica ed appassionata mogliettina (vedi “Ghost”). Tappe importanti e fondamentali a cui però corrispondono anche tonfi imbarazzanti di carriera: qualche esempio? “The Guardian” per Costner, “Lost in space” per Hurt e per la Moore un lungo elenco con “Soldato Jane” e “Half Light” in testa… Capita a tutti qualche passo falso, direte, però questa volta il danno è compiuto da tutti e tre, nessuno escluso…
I divi si ritrovano infatti nel film “Mr. Brooks” diretto da Bruce A. Evans (sceneggiatore a cui si devono il bellissimo “Stand by me”, “Starman” e il piratesco “Corsari”), scritto dallo stesso assieme all’abituale collaboratore di sceneggiatura Raynold Gideon. Il curriculum sostanzioso dell’autore non coincide però con la qualità di questo brutto thriller, costruito sulla figura del signor Earl Brooks (Costner), proprietario di uno scatolificio, sposato e con una figlia adolescente in età di college e con più di un problema, e con il vizio irrefrenabile del delitto perfetto. Un serial killer infallibile, spinto al crimine dal suo alter ego Marshall (Hurt), personaggio che vive nella mente dell’uomo e si materializza solo davanti a lui. Brooks è bravo, dannatamente bravo e ha voglia a cercare indizi la detective Atwood (Moore), già impegnata peraltro a seguire le tracce di un altro pluriomicida evaso e a risolvere le sue spinose questioni personali di divorzio.
Quindi si moltiplicano i killer e pure gli alter ego, perché Brooks viene “beccato” durante una delle sue efferate “missioni” e ricattato da un fotografo, il signor Smith (Dane Cook), non intenzionato a denunciare l’uomo perché desideroso di ammirarlo in azione, seguendolo come un fedele assistente.
“Mr. Brooks” è un affannato accumulo di delitti e incubi, di rimorsi e preghiere, di contraddizioni e lacerazioni, di dubbi e sospetti, di indagini e di rischi, per due ore piuttosto sfiancanti e decisamente tendenti al ridicolo, nel tentativo assai tedioso di costruire una vicenda intricata sul confine che vive tra realtà e follia, quest’ultima in forma assai lucida vista l’imperturbabile “nonchalance” del protagonista nel vivere tranquillamente la sua esistenza quotidiana, senza lasciar trapelare nulla del suo sanguinario “passatempo”. Quanti “killer” normali abbiamo visto al cinema? Questo “Mr. Brooks” non rende certo nuovo interesse al tema e la criminosa “normalità” del personaggio principale è sviluppata in modo alquanto scolastico, con goffi tentativi di sorprese che non rialzano certo il livello dell’attenzione nei confronti della visione.
Paolo Pagliarani