giovedì 27 settembre 2007

SCRIVILO SUI MURI


La “Moccia generation” è ormai accontentata oltre misura con la profusione di film “giovanili” usciti nelle sale negli ultimi due anni, compresi recuperi non certo fondamentali (vedi il primo film di Riccardo Scamarcio, rinnegato persino dall’attore). L’ultimo arrivato in ordine di tempo è “Scrivilo sui muri”, sceneggiatura e regia di Giancarlo Scarchilli (suoi “Mi fai un favore” con Ornella Muti e “I fobici” con Sabrina Ferilli), cast composto da Cristiana Capotondi (successo raccolto con “Notte prima degli esami”), Primo Reggiani (è passato dalle parti del tremendo “Melissa P.), Ludovico Fremono (è stato in “casa Cesaroni”) e Daniele De Angelis (faccia più o meno costante in questa tipologia di film dato che nel suo curriculum si ritrovano partecipazioni a “Ma che ci faccio qui?”, “Last Minute Marocco” e “Cardiofitness”), più gli adulti Claudio Bigagli, Anna Galiena e Yvonne Sciò, tutti compresi in due o tre pose ciascuno e partecipazioni sparse di Luis Molteni, Rodolfo Laganà e la cantante Dolcenera, che non canta e fa Benny, l’amica del cuore della protagonista, Sole.
Sole è una studentessa universitaria con il caratterino tipico della sua età: all’ennesima discussione familiare con la madre sempre assente, decide di spiccare il salto nel vuoto, ma la “visione” di Pierpaolo, un giovane writer, sul tetto la ferma. Sole incontra così i Civil Disobedience, entra a far parte delle loro azioni, diventa l’oggetto del desiderio di Pierpaolo ma si innamora dell’altro writer del gruppo, ovvero Alex, nonostante abbia già un fidanzato, uno spocchioso futuro avvocato, tutto vestiti eleganti e serate “alla moda”. Come risolverà Sole le questioni del suo cuore? Per i writer comunque c’è una grossa sfida: “taggare” un treno elettorale per diventare il gruppo numero uno…
Film inconsistente, con patetiche velleità di indagine sociologica sul fenomeno dei “graffittari” (il che ha fatto saltare le coronarie ad un politico, prima ancora che questi vedesse il film…) che non arriva da nessuna parte. Non riesce infatti ad essere in nessun modo determinato sul piano dell’inchiesta di costume e da un punto di vista romantico è banale e melenso, con quel carattere più da produzione televisiva che cinematografica, mancante di personalità e di brio. Il pubblico destinato al prodotto se ne deve essere accorto, visto che i risultati in sala non sono eccelsi, con un quarto posto in classifica ma con una bassa media per sala.
L’”overdose” di film sentimentali per giovani è arrivata al capolinea? Forse si, forse no: certo tra dieci, venti anni probabilmente nessuno riciclerà queste “operine” per rievocare i tempi (“Scrivilo sui muri” sembra addirittura già “vecchio”…) e si soffermerà piuttosto su Vasco Rossi (ovviamente presente in colonna sonora, dove compare anche Elisa, con la sua “Vita Spericolata”), che, piaccia o non piaccia, è sicuramente un fenomeno per più generazioni.

mercoledì 19 settembre 2007

I SIMPSON – IL FILM


Si ride già nei primi secondi, al risuonare della classica fanfara della “20th Century Fox”: praticamente un record! Poi un assaggio delle avventure spaziali di Grattachecca e Fichetto, o meglio un film a loro dedicato, a cui sta assistendo la famiglia gialla più famosa del mondo in una sala cinematografica. E noi ci godiamo Homer e compagnia su grande schermo, dove sono approdati dopo quasi vent’anni di militanza televisiva (sono nati nel 1989), con un lungometraggio tutto per loro diretto dall’esperto David Silverman, produttore per 64 episodi della serie e regista per 23.
Le creature di Matt Groening, (ideati, pare, in soli 15 minuti in una sala di attesa) nel loro orgoglioso 2D, con sberleffi alla Disney e prese in giro a destra e manca della vita quotidiana e dei personaggi famosi (tra le celebrità, che fanno a gara per farsi “caricatuzzare” dai disegnatori della serie, nel film si notano i Green Day, protagonisti di uno spassoso concerto musicale, Tom Hanks e Arnold Schwarzenegger che qui è diventato Presidente degli Stati Uniti), sono in fondo una famiglia come le altre, con difetti e pregi, ma con una forza ed una marcia in più dovuta alla loro stravaganza e alla diversità dei caratteri che permette di superare tutte le crisi.
Così nella storia creata appositamente per il cinematografo, i Simpson devono fronteggiare la terribile situazione di una Springfield isolata dal mondo per via dell’altissimo tasso di inquinamento del lago locale (indovinate di chi è la colpa?). Costretti a fuggire in Alaska, i gialli Simpson, dopo aver risolto una profonda crisi interna, riescono a far ritornare tutto alla normalità, sempre che consideriate Springfield una città normale…
Homer vuole rifugiarsi in Alaska ed ha trovato un nuovo amico, un simpatico porcello (rimanete anche per i titoli finali: la canzone “Spider Porc” da sola vale già il prezzo del biglietto!), Bart si sente trascurato da papà e si rifugia negli affetti del vicino Ned Flanders (ma è anche protagonista di una corsa in skatebooard completamente nudo che vi farà venire i lucciconi agli occhi dalle risate), Lisa si innamora di un ragazzo irlandese (che non è, come ci tiene a sottolineare, il figlio di Bono Vox!), Margie ha i suoi problemi casalinghi da risolvere, il nonno ha le visioni e Maggie pronuncia le sue prime parole, finalmente ascoltate anche dai genitori.
Un divertimento ed uno spasso, per tutte le età, tranne i bimbi più piccoli, visto che i Simpson hanno un loro target piuttosto adulto, per la valanga di citazioni, riferimenti sociali e politici e qualche momento che ha fatto venire i sorci verdi a più di un esagerato puritano. Ma non sono molto più “pericolose” certe famiglie televisive all’ordine del giorno sui nostri canali, veri e propri ricettacoli di banalità e di vuoto assoluto?

LA RAGAZZA DEL LAGO


Batte forte il cuore all’inizio di questo “La ragazza del lago”, “noir” provinciale ambientato in una silenziosa località friulana, esordio registico di Andrea Molaioli, che utilizza una sceneggiatura di Sandro Petraglia, adattamento del romanzo di Karin Fossum “Lo sguardo di uno sconosciuto”.
In un piccolo paese, uno di quelli dove si conoscono tutti, una bimba viene invitata a salire su un auto da uno sconosciuto che scopriamo poi essere Mario (Franco Ravera), anima buona e semplice del borgo, una di quelle persone che non farebbe del male ad una mosca e vuole solo mostrare un enorme coniglio alla sua giovane amica. Temiamo il peggio quando tutto il paese si agita per la scomparsa della ragazzina che scomoda persino il Commissario Sanzio (Toni Servillo, bravissimo), poliziotto del Sud, trasferito in quelle terre, persona dolente, ma capace anche dei suoi bravi scatti d’ira, con problemi familiari di non semplice gestione. La bimba viene ritrovata ma ha visto qualcosa, anzi qualcuno: è la giovane Anna, locale campionessa di hockey femminile, che giace cadavere sulla riva del lago, uccisa da non si sa bene chi. Per il Commissario inizia il consueto “giro” investigativo. I sospetti cadono sul fidanzato, ma sul taccuino dell’ispettore ci sono anche altri personaggi come lo scorbutico padre di Mario (Omero Antonutti), Corrado Canali, conoscente della vittima (Fabrizio Gifuni) e persino il padre di Anna, spezzato dal dolore (Marco Baliani) per l’adorazione nei confronti della figlia.
Lo scorbutico poliziotto inizia a dipanare la matassa, ma i nodi sono tanti e rischiano di aggrovigliare il tutto…
Bell’esempio di poliziesco d’atmosfera, condotto con mano esperta da Molaioli che ha costruito la propria vita artistica lavorando come assistente di regia per autori come Nanni Moretti e Pasquale Pozzessere. Trova il respiro giusto, indovina i personaggi e li modella con una certa abilità e costruisce un ritmo cadenzato e azzeccato, con il suo intreccio che svela a poco a poco tutti gli elementi indispensabili, sia sul versante dell’indagine poliziesca che sugli aspetti privati del Commissario, usufruendo così di un ideale doppio binario, collettivo (il coinvolgimento del paese per l’atroce delitto) e personale.
Nel cast appaiono anche Valeria Golino, Giulia Michelini, Denis Fasolo e Sara D’Amario, mentre i silenzi delle montagne friulane sono spezzati dalle musiche con venature elettroniche di Teho Teardo.
A Venezia è sfilato nella settimana della critica, ma meritava certo un posto in concorso.

domenica 16 settembre 2007

IO NON SONO QUI


Per l’anagrafe è Robert Allen Zimmerman, Per il mondo, musicale e non, è Bob Dylan. Per i “dylaniani” convinti c’è il Bob Dylan folk degli esordi, quello del “tradimento” elettrico, quello della conversione religiosa ed il Dylan contemporaneo, sempre impegnato in un “Never Ending Tour” infinito, sospeso ogni tanto dall’uscita di un nuovo disco.
Le “Dylan variations” finiscono ora sul grande schermo grazie a Todd Haynes, il regista di “Safe”, “Velvet Goldmine” (altro film dedicato alla musica) e “Lontano dal paradiso”, che per “Io non sono qui” si ispira alla musica e alle tante vite di Bob Dylan, elaborando, assieme allo sceneggiatore Oren Moverman, un complesso racconto, caleidoscopico ritratto tra realtà, finzione e citazioni, non tutte afferrabili dal consumatore medio di musica (il fan del “menestrello di Duluth” avrà invece di che divertirsi), in cui Dylan viene frammentato in sei personaggi a cui spetta il compito di raccontarne le varie fasi artistiche ed umane.
Nessuno risponde al nome di Bob Dylan (che appare in filmato d’archivio solo alla fine), ma tutti in fondo lo sono: il giovanissimo “blues.boy” invaghito di Woody Guthrie, da cui ha preso il nome e la chitarra con la celebre frase “this machine kills fascists”, interpretato da Marcus Carl Franklin, che regala un duetto pieno di emozioni con il “grande vecchio” Richie Havens, il malinconico Arthur (Ben Whishaw), il folk singer di protesta Jack Rollins (raccontato anche dalla “partner” musicale Alice, rappresentata dall’attrice preferita di Haynes, Julianne Moore, nel cui personaggio non è difficile riconoscere una donna molto importante nella vita dell’artista…), poi convertito al cristianesimo e trasformatosi in Father John (Christian Bale), il tormentato cantante Jude Queen che sconvolge i puristi nell’Inghilterra dei Beatles e dei Rolling Stones (Cate Blanchett), il divo Robbie (Heath Ledger) ingoiato dal successo internazionale e divorato dal divorzio dalla sua compagna (Charlotte Gainsborough) e il crepuscolare Billy, isolato dal mondo (Richard Gere). Il tutto frullato con una certa passione ma anche un po’ di gioco cerebrale ed intellettuale, di non certo facile assimilazione da parte della generazione MTV, quella che assiste alla disfatta televisiva di Britney Spears ma al massimo di Dylan conosce (forse) “Blowin’ in the Wind”, tra l’altro non inserita in colonna sonora, quest’ultima comunque magnifica perché regala perle dylaniane di grandezza incommensurabile.
Per chi invece frequenta la musica e le evoluzioni artistiche del cantautore americano, troverà momenti di conforto sia cinematografico che musicale, in un ritratto non convenzionale e con i suoi bravi momenti intriganti, ritornato dalla Mostra del Cinema di Venezia con un meritato premio per Cate Blanchett (più un premio speciale della Giuria al film), il Dylan in bianco e nero che si becca i fischi per la svolta rock, gioca con i Beatles gonfi di gas elio, indica i Rolling Stones come una “brava cover band” e incrocia Allen Ginsberg (l’attore David Cross).

LE RAGIONI DELL’ARAGOSTA


Le aragoste hanno il senso dell’umorismo? Ad ascoltare la situazione di una cooperativa di pescatori sardi, non c’è poi tanto da ridere. Sabina Guzzanti sposa la causa della cooperativa e decide di ricostruire il gruppo di “Avanzi” per uno spettacolo speciale in una località dal nome troppo comico, ovvero “Su Pallosu”… Il tutto documentato nel suo ultimo film “La ragioni dell’aragosta”, nuova esperienza cinematografica per l’attrice, ancora una volta regista, autrice ed interprete, dopo l’inatteso successo del precedente “Viva Zapatero!”.
Il film fa scattare tutta una serie di molle emotive e di domande urgenti: la Guzzanti si interroga sulla necessità di farsi coinvolgere da iniziative sociali, sulla sua stessa professione di attrice comica, sull’opportunità o meno di ricostruire l’Avanzi team a così tanto tempo di distanza.
In più c’è la presenza di Gianni Usai, ex operaio Fiat, impegnato in mille battaglie sindacali e passato al mondo della pesca dopo diciotto anni passati in fabbrica. Lui è il “motore” della vicenda, quello che segue passo dopo passo l’evolversi dello spettacolo che sembra non dover nascere mai. Sfilano così la ritrosia di Pier Francesco Loche, ritiratosi in Sardegna e con il ritmo nel sangue (ma la sua batteria non riesce proprio a “sposarsi” con il resto della band musicale dello show…), le perplessità di Antonello Fassari che non si ritrova più in quella dimensione e non ne vuole proprio sapere del clown Cipollone, la crisi di Cinzia Leone che sappiamo reduce da una tremenda esperienza personale, lo spirito di Francesca Reggiani e l’umore un po’ “caciarone” di Stefano Masciarelli (mancano all’appello Corrado e Caterina Guzzanti). Come non bastasse tutto questo salta fuori uno spazio che si rivela inadeguato, con successiva ricerca affannosa di un luogo idoneo, poi rintracciato in un grande anfiteatro a Cagliari per ospitare uno show dal parto davvero difficile. Sfilano vecchi “clips” di “Avanzi”, si ripensa con nostalgia ad una televisione che non tornerà più, invasa com’ è dalla prepotenza dei politici e da una programmazione sempre più impersonale e per nulla capace di suscitare vere emozioni, tanto meno risate liberatorie e caustiche e si segue un percorso narrativo che ci porta ad una inatteso colpo di scena finale che ribalta tutte le convinzioni acquisite nel corso della proiezione, in un ribaltamento tra realtà e finzione…
Forse però il problema è il viaggio cinematografico verso questa conclusione inattesa: ci si abbandona un po’ alla nostalgia e alle (doverose) riflessioni d’artista, ci si abbandona più ai pensieri che alle risate, ci si ritrova in compagnia di “vecchi amici” piuttosto cambiati e in qualche momento ci si annoia un pochino. “Viva Zapatero!” aveva una maggiore forza dirompente, qui si assiste più ad un gioco che tira fuori alla fine un bell’asso nella manica ma risulta non sempre di uguale brillantezza. Come aprire un’aragosta: lavori tanto, ma alla fine salta fuori una buona sorpresa…

PREMONITION


Linda Hanson è felicemente sposata con Jim, ha due figlie che adora e vive tranquillamente le sue giornate, con il suo bravo “tran-tran” che comprende il portare le figlie a scuola e rigovernare la casa. Tutto normale, tutto a posto… Ma un brutto giorno Linda riceve la tragica notizia della morte improvvisa del marito in un incidente. Il buio scende sulla casa e la donna non può far altro che accingersi a preparare il rito funebre. Ma al risveglio Jim è ancora al suo posto, nel suo letto. Cosa sta succedendo nella mente di Linda?
“Premonition” è un film interpretato da Sandra Bullock e diretto dal regista tedesco Mennan Yapo, su sceneggiatura di Bill Kelly: un andirivieni continuo tra sogni e premonizioni per la sempre più tormentata protagonista. Oltre alla morte del marito (interpretato da Julian MacMahon, visto nei tempi recenti nei panni del Dottor Destino nei due “Fantastici Quattro”) nelle sue “veggenze” si fanno avanti anche un brutto incidente per la figlia più grande che si deturpa il volto per uno scontro con una vetrata ed uno psichiatra (Peter Stormare) che Linda non conosce, non ha mai visto e da cui non ha certo ricevuto i medicinali che si ritrova nel bagno.
Siete già confusi a questo punto? Beh, lo sviluppo della storia non è esattamente lineare e il giochino “marito morto-marito vivo” con scoperte di “altarini” (c’è la consueta tresca extra coniugale con la bella vice presidente dell’azienda interpretata da Amber Valletta) da parte della moglie man mano che la trama si sviluppa, rendono il tutto ancora più caotico. Riuscirà Linda a salvare la pellaccia al consorte, visto che sa esattamente come morirà?
Personaggi che vanno e vengono, anche sacrificati nell’economia della trama (vedi il povero Peter Stormare che non è che abbia esattamente ampio spazio…) per 96 minuti (la prima versione arrivava a 110 minuti poi qualcuno deve aver suggerito al regista che qualche taglio poteva rendere più appetibile il film, anche se le forbici in sala di montaggio non lo hanno reso certo più digeribile) di scarsa attrattiva, dove sono coinvolte anche Kate Nelligan nei panni della madre di Linda e Nia Long in quelli dell’amica di Linda Annie.
Sandra Bullock cerca in ogni modo di rinvigorire una carriera più appannata che solida, ma questo film non fa certo punteggio nel curriculum anche se il film ha avuto in America un discreto successo al botteghino con 47 milioni di dollari raccolti nel periodo primaverile.

IO VI DICHIARO MARITO…E MARITO


Pompieri, “machi”, molto uomini… Figuratevi le reazioni quando si viene a scoprire che due membri della squadra sono uniti in matrimonio. Ma in realtà il matrimonio è una finzione per qualcos’altro…. Succede in “Io vi dichiaro marito… e marito”, il film di Dennis Dugan (forse qualcuno ricorderà il divertente “Gli sgangheroni del 1992, ma nella sua filmografia c’è anche “Un tipo imprevedibile”, dal cui titolo originale, “Happy Gilmore”, Adam Sandler ha tratto il nome della sua casa di produzione), commedia dell’estate in America, con un incasso al botteghino di ben 114 milioni di dollari ed un punta in orgoglio in più per aver tolto la “pole position” al quinto “Harry Potter”. Scritto da un trio di sceneggiatori che annovera anche Alexandre Payne, il regista di “Sideways” (gli altri due sono Barry Fanaro e Jim Taylor, quest’ultimo condivide l’Oscar con Payne proprio per la sceneggiatura di “Sideways”), il film di Dugan segue le tendenze più recenti che trasportano le tematiche a sfondo omosessuale non solo in contesti drammatici, ma anche in momenti di risate e divertimento (la serie tv “Will & Grace” insegna…).
Succede allora che i bravi pompieri Chuck Levine (Adam Sandler) e Larry Valentine (Kevin James), amici per la pelle, siano costretti ad inscenare una relazione gay con tanto di nozze celebrate a Las Vegas, per permettere al vedovo Larry, con due figli a carico, di non perdere i contributi per la pensione. Per Chuck, donnaiolo scatenato, all’inizio è molto dura, ma per l’amico si farebbe davvero in quattro e così si trasferisce a casa Valentine. Si fanno aiutare dall’avvocato Alex McDonough (Jessica Biel) affascinante al punto di mettere in crisi il povero Chuck che si innamora della bella “principessa del foro”, ma non può lasciare Larry in difficoltà. E poi c’è l’acuto investigatore fiscale Clinton Fitzer (Steve Buscemi) sospettoso della finta unione dei due, l’atteggiamento di intolleranza dei colleghi ed il loro capo unità (Dan Aykroyd) che scopre tutto e non vuole beghe nella sua compagnia.
Più rischioso di un incendio, non c’è che dire… Il film è dotato di spunti divertenti nella prima parte (vedi il salvataggio del super obeso da un incendio) ma poi perde di mordente nel suo sviluppo troppo accomodante per arrivare alla classica conclusione finale di riscatto in un processo (il giudice è Richard Chamberlain, così “liftato” da sembrare una statua di cera…) e la soluzione risolutiva che rende tutti felici e contenti. Certo ci si preoccupa nel film delle intolleranze verso gli omosessuali e Chuck e Larry diventano paladini dell’orgoglio gay, portando anche i più timorosi a fare “outing” (è il caso del pompiere Ving Rhames, per anni con il suo segreto custodito gelosamente), ma il prodotto non ne esce del tutto vincente, con qualche punta di delusione per la mancante brillantezza che ci si aspettava maggiormente dalla scrittura di Payne/Taylor.

mercoledì 5 settembre 2007

4 MESI, 3 SETTIMANE, 2 GIORNI


Palma d’Oro al Festival di Cannes 2007 per “4 mesi, 3 settimane, 2 giorni”, un ritratto amaro, desolante e tragico della Romania comunista, negli ultimi anni della dittatura Ceausescu. Un paese raccontato attraverso la dolorosa esperienza di due studentesse, Otilia (Anamaria Marinca) e Gabita (Laura), fissata sul grande schermo dalla sceneggiatura e dalla regia di Christian Mungiu, quarant’anni, carriera da insegnante alle spalle ed una filmografia che comprende alcuni corti ed il film “Occident”, comparso nel 2002 alla Quinzaine des réalisateurs a Cannes.
1987, in uno studentato Gabita riempie nervosamente la valigia. Si sta preparando per un viaggio, assieme all’inseparabile amica Otilia, ma l’itinerario è quanto mai doloroso: la sua meta è infatti una camera d’albergo a Bucarest dove incontrerà il signor Bebe (Vlad Ivanov) per abortire clandestinamente. A dolore si aggiunge dolore perché il meticoloso e severo Bebe chiede alle ragazze prestazioni sessuali in cambio del servizio e Otilia deve pure risolvere alcune questioni con il fidanzato.
La macchina da presa del regista si insinua con grande rigore negli spazi chiusi, nei silenzi “chiassosi”, nel dramma palpabilissimo delle due ragazze, nella tensione di Otilia, bloccata a casa del fidanzato per il compleanno della mamma di quest’ultimo e desiderosa di avere notizie sullo stato di salute dell’amica e nella disperata corsa notturna di Otilia nel buio avvolgente della notte per sbarazzarsi in modo impietoso di quel feto che ha vissuto solo quattro mesi, tre settimane e due giorni (da qui il titolo).
Molta macchina da presa fissa e qualche piano sequenza in questo quadro intimo eppure così tristemente collettivo per narrare la storia di un paese che ha sofferto (dal 1966 al 1989 in Romania sono state registrate novemila donne morte per le interruzioni di gravidanza) e che fatica a fare i conti con il suo tragico passato. Un contributo viene proprio dal film di Mungiu che attraverso la toccante esperienza di Gabita e Otilia racconta, con una decisa prova di carattere, le lacerazioni individuali causate da un mondo “controllato” ed impossibilitato a trovare la sua libertà.
Peccato che il regista abbia deciso di scioccare il pubblico con l’immagine del feto abbandonato sul pavimento del bagno: una scena non necessaria, visto anche che per tutta la durata del film il regista tende a suggerire più che mostrare mostrando una sua brillante personalità. Gli sguardi smarriti, la paura ed i silenzi delle due ragazze (come quello conclusivo a tavola) sono molto più eloquenti di un momento francamente disturbante.

CAPTIVITY


La “prima volta” del regista Roland Joffé nel genere thriller (con tocchi horror) è praticamente un disastro (vedi anche alla voce “botteghino Usa” con incassi attorno ai due, dicesi due, milioni e 600 mila dollari
Utilizzando una sceneggiatura del veterano Larry Cohen (la trilogia del “poliziotto maniaco” ed in tempi più recenti “Phone Booth” e “Cellular”) qui assistito dall’esordiente Joseph Tura, il regista di “Urla del silenzio” e “Mission”, mancante dal grande schermo da ben sette anni (la sua ultima fatica è stato lo storico-gastronomico “Vatel”), si cimenta con le atmosfere claustrofobiche che oggi vanno per la maggiore se guardiamo a “modelli” (non certo però di grande ispirazione) tipo “Hostel” o “Saw”, aggiungendo la consueta dinamica dell’ossessione del maniaco di turno per la sua vittima.
Una bella modella, Jennifer (Elisha Cutberth, reduce dal serial “24”e non certo digiuna di atmosfere orrorifiche visto che ha interpretato “House of Wax”) è oggetto di attenzioni di un misterioso individuo. Drogata durante una festa in discoteca Jennifer si ritrova rinchiusa in una stanza e tutti i suoi tentativi di fuga si rivelano inutili, con successive e crudeli punizioni per la ragazza (compreso un frullato di organi umani fatto ingurgitare a forza via imbuto). Ma Jennifer non è sola con il suo rapitore: la sua cella confina con quella di Gary (Daniel Gilles, visto in “Matrimoni e pregiudizi” e nei panni di John Jameson in “Spider Man 2”), anche lui prigioniero e i due si coalizzano per combattere il loro comune nemico. Ci scappa pure un po’ di sesso….
Ma la sorpresa (sai che sorpresa: se state attenti il giochino è facile da scoprire) è tra le mura della stanza, dove si celano i soliti, immancabili “scheletri nell’armadio”.
Film bello tediosetto, fortunatamente di durata ridotta (90 minuti circa) con la Cuthbert impegnata in un ruolo di “oggetto del desiderio” ma non così accattivante come il personaggio richiede (ci voleva un attrice capace di una maggiore attrazione erotica, qui rimaniamo sul versante della ragazza carina e basta…), topi ed ambienti fetidi, voyeurismo a “go-go”, i soliti poliziotti che vanno a finire male, una parte ridotta per Pruitt Taylor Vince (altro componente del ridotto cast), qualche “spruzzata” di stile cinematografico “alternativo” e un po’ “fighetto”, la resa dei conti conclusiva con le solite abusate frasi tipo “Tu sei una bambina molto cattiva” (e basta!) e la “coglionaggine” dimostrata dal colpevole che in pratica serve a Jennifer la vendetta su un piatto d’argento…
Davvero nulla che ci cambi la vita a livello di profonde tensioni…

PROVA A VOLARE


È dal 2003 che questo film “Prova a volare” e ora è riuscito a spiccare il salto verso le sale cinematografiche, grazie all’effetto Scamarcio, divo a tutti gli effetti che trasforma decisamente in oro, pardon in incassi i film con lui come protagonista. Eppure questo film non ha fatto la “botta” (al box office italiano ha vinto questa settimana la commedia romantica made in Usa “Il bacio che aspettavo”), probabilmente perché le “fans” dell’attore sapevano già che il film di Lorenzo Cicconi Massi è una delle prime prove come attore di Scamarcio, che ha anche recentemente dichiarato di non amare il film, al punto che non lo trovate inserito nella sua biografia sul sito ufficiale (si è dovuto invece arrendere e ha inserito il poster e qualche info sul film, perché non si può certo nascondere la testa sotto la sabbia per lungo tempo…)
Così il giovane Scamarcio muoveva i primi passi del dorato mondo del cinema interpretando il ruolo di Alessandro, ventenne di Senigallia trovatosi improvvisamente sulle spalle la gestione dell’azienda di famiglia, per via della morte del padre in un incidente. La vita di fabbrica gli sta però stretta e preferisce mettersi dietro ad una telecamera per riprendere matrimoni con il “socio” interpretato da Antonio Catania. Proprio in uno di questi matrimoni incrocia la giovanissima Gloria (Alessandra Mastronardi, giovane attrice che oggi frequenta la sit-com “I Cesaroni”), già con abito nuziale indossato che di punto in bianco molla sposo, parenti ed amici e fugge proprio con Alessandro, coinvolto suo malgrado nella fuga della ragazza. Un lungo viaggio verso il Sud dove la fanciulla ha un appuntamento per abortire ed iniziare una nuova vita. Tra Alessandro e Gloria scoppiano litigi e discussioni, ma arriva pure il bacio, mentre il furioso papà (Ennio Fantastichini) è sulle tracce della sconsiderata pargola.
Il tutto in una sorta di road-movie dalle Marche alla Basilicata, avvolto nelle consuete atmosfere “carine” e da fotoromanzo di molto cinema italiano “giovanile” che francamente inizia a stancare e non importa se il film in questione è di quattro anni fa.
E poi c’era proprio bisogno di ritirare fuori questa acerba pellicola con un ancora più acerbo Scamarcio (che qualche cosa di buono l’ha poi fatta, vedi “Mio fratello è figlio unico”) giusto per non mandare in crisi di astinenza le sue adoranti sostenitrici? Ci sono film molto più belli ed interessanti che non passano in sala, arrivano direttamente in DVD e a volte neppure quello per cui li devi rintracciare all’estero…

sabato 1 settembre 2007

HARRY POTTER E L’ORDINE DELLA FENICE

La “Potter Invasion” non accenna a fermarsi: il quinto film “Harry Potter e l’ordine della fenice” è ancora nelle sale cinematografiche, sappiamo praticamente tutto sulla fine del settimo ed ultimo volume, ma lo attendiamo con ansia in Italia, con la sua brava traduzione, per i primi giorni del 2008.
Inutile scomodarsi più di tanto: Harry Potter piace. Punto e basta. Difficile trovare una simile partecipazione collettiva di fronte ad un personaggio che è cresciuto assieme ai suoi lettori, ormai perfettamente in sintonia con la sua crescita sempre più problematica e la battaglia sempre più difficile con il mortale nemico Voldemort.
Per “Harry Potter e l’ordine della Fenice” c’è un nuovo regista (David Yates, direttore britannico che viene dal piccolo schermo, probabilmente dietro alla macchina da presa anche per il prossimo), un nuovo sceneggiatore (Michael Goldberg, già autore dello “script” dell’ultimo “Peter Pan”), mentre sono al loro posto i bravissimi attori del cast, con alcune nuove entrate di spicco tra cui la brava Imelda Staunton che tratteggia l’odiosa professoressa Umbridge con il giusto tasso di antipatia e Helena Bonham Carter a cui spetta la cattivissima Beatrix Lestrange, senza dimenticare i nuovi personaggi fantastici come il gigante Grop o l’elfo Kreacher.
Si respira aria di rivolta a Hogwarts: il Ministero della Magia non crede al ritorno di Voldemort ed ha piazzato la rigorosa professoressa Umbridge a controllare le attività degli studenti, impedendogli di fatto di esercitare a scuola le arti magiche ed arrivando a sostituire persino Albus Silente. Ma Harry, sempre più sconvolto dall’avvicinarsi dell’influenza “scura” di Voldemort, non ci sta e con l’aiuto dei fidati Ron e Hermione e gli altri amici (Neville, Ginny, la stravagante Luna Lovegood ed altri studenti) tiene corsi clandestini per prepararsi al nuovo attacco di Voldemort, il quale è alla disperata ricerca di un prezioso elemento per la sua vittoria…
In una Hogwarts sconvolta dalla repressione istituzionale e dallo spirito di contestazione dei magici studenti, c’è spazio anche per il primo bacio di Harry Potter con l’amata Cho Chang, che provoca applausi a scena aperta…
138 minuti di buon impianto spettacolare e narrativo con un’efficace attenzione ai personaggi (anche se qualche carattere viene irrimediabilmente sacrificato) inseriti in una trama assai prosciugata rispetto al romanzo, il che permette una fruizione più compatta per lo spettatore che si trova di fronte allo schermo, assorbito senza distrazioni dall’evolversi degli eventi.

DISTURBIA

Dai tempi de “La finestra sul cortile” sappiamo benissimo che è pericoloso spiare il vicino…. Ma è anche pericoloso stare troppo “appiccicati” a modelli insuperabili, come succede a “Disturbia”, il film diretto da David J. Caruso (“The Salton Sea”, “Rischio a due”) e scritto da Christopher Landon e Carl Ellsworth, ambedue con la mente fin troppo rivolta al capolavoro hitchockiano.
Spostato sul versante adolescenziale con l’utilizzo di una nuova star come Shia LaBeouf (apparso in “Guida per riconoscere i tuoi santi” ed ora consacrato da “Transformers” e dal ruolo di una carriera, ovvero il figlio di Indy nell’attesissimo quarto episodio di “Indiana Jones”), presenza in grado di attirare in America molti teen agers raccogliendo ben ottanta milioni di dollari al botteghino, “Disturbia” è la storia di Kale, giovanotto che ha visto morire il padre in un incidente e in un momento di rabbia ha tirato un cazzotto in faccio al suo prof di spagnolo. Morale della favola: arresti domiciliari con tanto di braccialetto alla caviglia che gli impedisce di uscir fuori dal cortile e controllo da parte della madre apprensiva (è Carrie Ann-Moss) che cerca in tutti i modi di ristabilire l’equilibrio familiare. Quindi niente X-Box e niente tv per Kale e nella noia della prigionia non rimane altro che osservare i vicini di casa. Il che va bene quando si tratta di scrutare i particolari della vita della bellissima dirimpettaia appena arrivata nel quartiere, Ashley (Sarah Roemer), un po’ meno quando Kale inizia ad avere sospetti riguardo al signor Turner (David Morse): che sia effettivamente il serial killer che rapisce ragazze con i capelli rossi e che sta terrorizzando la provincia? Ovviamente nessuno crede a Kale e le prove raccolte non riescono a convincere neanche i poliziotti…
Il thriller “Disturbia” ha se non altro il vantaggio di uscire per un attimo dalla media dei prodotti orrorifici confezionati per il pubblico giovanile, giocando sulla tensione che non sugli effettacci sanguinolenti. Ma la narrazione non appare del tutto convincente e il continuo richiamo alla celebre finestra del “mago del brivido” e David Morse che prende troppo a riferimento l’Anthony Hopkins modello “Hannibal Lecter” ne fanno perdere in vitalità ed originalità, anche per via di un ritratto di quartiere troppo “costruito” e non sempre in grado di suscitare la giusta inquietudine stile “il mio vicino è un killer”.
Rimangono la faccina da bravo ragazzo del giovane interprete e qualche colpo finale che alza il tasso di adrenalina e riesce se non altro a riportare l’attenzione dello spettatore verso un prodotto di non particolarmente esaltanti intuizioni cinematografiche e narrative.