domenica 16 settembre 2007
IO NON SONO QUI
Per l’anagrafe è Robert Allen Zimmerman, Per il mondo, musicale e non, è Bob Dylan. Per i “dylaniani” convinti c’è il Bob Dylan folk degli esordi, quello del “tradimento” elettrico, quello della conversione religiosa ed il Dylan contemporaneo, sempre impegnato in un “Never Ending Tour” infinito, sospeso ogni tanto dall’uscita di un nuovo disco.
Le “Dylan variations” finiscono ora sul grande schermo grazie a Todd Haynes, il regista di “Safe”, “Velvet Goldmine” (altro film dedicato alla musica) e “Lontano dal paradiso”, che per “Io non sono qui” si ispira alla musica e alle tante vite di Bob Dylan, elaborando, assieme allo sceneggiatore Oren Moverman, un complesso racconto, caleidoscopico ritratto tra realtà, finzione e citazioni, non tutte afferrabili dal consumatore medio di musica (il fan del “menestrello di Duluth” avrà invece di che divertirsi), in cui Dylan viene frammentato in sei personaggi a cui spetta il compito di raccontarne le varie fasi artistiche ed umane.
Nessuno risponde al nome di Bob Dylan (che appare in filmato d’archivio solo alla fine), ma tutti in fondo lo sono: il giovanissimo “blues.boy” invaghito di Woody Guthrie, da cui ha preso il nome e la chitarra con la celebre frase “this machine kills fascists”, interpretato da Marcus Carl Franklin, che regala un duetto pieno di emozioni con il “grande vecchio” Richie Havens, il malinconico Arthur (Ben Whishaw), il folk singer di protesta Jack Rollins (raccontato anche dalla “partner” musicale Alice, rappresentata dall’attrice preferita di Haynes, Julianne Moore, nel cui personaggio non è difficile riconoscere una donna molto importante nella vita dell’artista…), poi convertito al cristianesimo e trasformatosi in Father John (Christian Bale), il tormentato cantante Jude Queen che sconvolge i puristi nell’Inghilterra dei Beatles e dei Rolling Stones (Cate Blanchett), il divo Robbie (Heath Ledger) ingoiato dal successo internazionale e divorato dal divorzio dalla sua compagna (Charlotte Gainsborough) e il crepuscolare Billy, isolato dal mondo (Richard Gere). Il tutto frullato con una certa passione ma anche un po’ di gioco cerebrale ed intellettuale, di non certo facile assimilazione da parte della generazione MTV, quella che assiste alla disfatta televisiva di Britney Spears ma al massimo di Dylan conosce (forse) “Blowin’ in the Wind”, tra l’altro non inserita in colonna sonora, quest’ultima comunque magnifica perché regala perle dylaniane di grandezza incommensurabile.
Per chi invece frequenta la musica e le evoluzioni artistiche del cantautore americano, troverà momenti di conforto sia cinematografico che musicale, in un ritratto non convenzionale e con i suoi bravi momenti intriganti, ritornato dalla Mostra del Cinema di Venezia con un meritato premio per Cate Blanchett (più un premio speciale della Giuria al film), il Dylan in bianco e nero che si becca i fischi per la svolta rock, gioca con i Beatles gonfi di gas elio, indica i Rolling Stones come una “brava cover band” e incrocia Allen Ginsberg (l’attore David Cross).
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